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I media di massa tra crowdsourcing e citizen journalism

Ieri, Nova24 ha pubblicato un mio articolo sul rapportra media di massa e contenuti generati dagli utenti. Eccolo:

Negli ultimi dieci anni, un numero crescente di persone ha imparato a creare e condividere contenuti digitali, acquisendo familiarità con Internet e con servizi online che si fregiano dell’aggettivo “sociale” a sottolineare il fatto che richiedono (o forse sarebbe meglio dire presuppongono) la loro partecipazione attiva. Gli utenti di questi siti sono di volta in volta invitati a: condividere contenuti che hanno prodotto; votare, commentare, categorizzare o manipolare quelli prodotti da altri; creare gruppi sociali basati sull’affinità di gusti, interessi e obiettivi.
I media sociali stanno velocemente entrando in competizione con i media di massa, conquistando nuovi territori di attenzione e costringendo questi ultimi a porsi il problema di come affrontare la concorrenza dei contenuti generati dagli utenti e la nascita di modelli di giornalismo alternativi a quelli consolidati.
In questo scenario, alcuni editori si ostinano a rimanere arroccati nella velleitaria speranza di poter difendere la fortezza; altri stanno mettendo in campo risposte con l’obiettivo di non perdere terreno e di ricollocarsi tatticamente e strategicamente nel nuovo scenario competitivo.
Fronte numero uno: utenti, consumatori e cittadini hanno iniziato a riversare nello spazio pubblico creato da Internet una quantità enorme di informazioni di tutti i generi. Certamente ci sono le notizie personali da condividere con gli amici: così tante che professionisti dell’informazione superficiali o in malafede hanno buon gioco nello stigmatizzare o nel ridurre il fenomeno dei media sociali a un circo di diari adolescenziali effimeri e poco interessanti. Questi contenuti, però, non sono pensati per fare informazione, non contengono notizie e non competono per l’attenzione dei lettori o dei telespettatori. Diverso è il caso di chi si “improvvisa” giornalista e racconta fatti ed esperienze, oppure – forte della propria competenza specialistica – li analizza e li commenta. Costoro, anche se spesso involontariamente, fanno concorrenza ai professionisti dell’informazione e si aggiudicano parte dell’attenzione che prima veniva dedicata ai media mainstream. D’altro canto, è un dato di fatto che i mass media hanno dei limiti di velocità, presidio del territorio e copertura dei temi: un cronista non potrà mai essere veloce quanto una persona che si trova sul posto nel momento in cui accade un evento; il numero di reporter è una risorsa finita e quindi il numero di eventi che si possono coprire sarà sempre insufficiente; i giornali e le televisioni sono strutturalmente generalisti e si occupano dei contenuti di nicchia solo sporadicamente.
Alcuni siti di informazione stanno affrontando la sfida legata a velocità e copertura ricorrendo al crowdsourcing, ossia esternalizzando la produzione di alcuni contenuti verso gli utenti. Per esempio, Cnn raccoglie i contenuti spontanei degli utenti tramite il servizio iReport, quindi seleziona alcuni contributi e li pubblica nel sito principale della testata. Si tratta generalmente di fotografie e piccoli video che permettono di aggiungere punti di vista a una notizia (le reazioni degli elettori alla nomination di Obama) o di offrire notizie molto locali (una nevicata in Colorado a giugno) o molto specialistiche (un combattimento tra avatar in Second Life). In alcune circostanze, gli iReporter permettono di essere tempestivi nella copertura di un evento (l’esplosione in uno stabilimento chimico in Florida prima fotografato e poi raccontato in collegamento telefonico da un signore del posto).
In definitiva, il crowdsourcing, cooptando risorse che altrimenti si riverserebbero in blog e siti di condivisione di fotografie e video, permette di migliorare la capacità di una testata di “essere sul pezzo” e di essere presenti nella coda lunga dell’informazione offrendo contenuti per nicchie anche molto piccole di lettori.
Diversa, invece, sarà la competizione che si apre sul secondo fronte, ossia quella con i siti di citizien journalism, in cui i cittadini non solo vengono coinvolti nella produzione di contenuti, ma possono determinare l’agenda della testata. In questo caso, infatti, c’è un cambio di paradigma, giacché la scelta di cosa pubblicare e in che termini, non avviene più con un processo top-down che idealmente parte dall’editore, passa per il direttore giù lungo la gerarchia fino ai redattori, ma viene determinata bottom-up grazie al contributo distribuito di persone comuni ed, eventualmente, all’ausilio di algoritmi in grado di mettere a sistema l’apporto dei singoli.
Si tratta di applicare in modo sistematico alla produzione di notizie un modello di determinazione dell’agenda che si affida a fenomeni di intelligenza collettiva. Oggi, la capacità dei cittadini di influenzare gli argomenti di cui di si parla nello spazio pubblico si manifesta sporadicamente, magari in reazione ad accadimenti che provocano l’indignazione e la protesta. Gli esperimenti che stanno esplorando l’area del citizen journalism di fatto cercano di sistematizzare questi fenomeni emergenti creando luoghi digitali in cui i cittadini possano sperimentare nuovi modi di fare informazione. I tentativi sono molteplici. Per esempio, Newsvine propone un modello ibrido in cui: un flusso di notizie di Associated Press convive con le segnalazioni e gli articoli dei lettori; la prima pagina è composta in parte dalla redazione e in parte dagli utenti. La francese Agoravox adotta un approccio radicale e affida integralmente ai cittadini la produzione di notizie e commenti. Il progetto Global Voices, invece, aggrega e amplifica le discussioni che riguardano luoghi e genti (quelli del terzo mondo) che i media di massa ignorano quasi sistematicamente.
E’ presto per dire se questi esperimenti porteranno a modi di fare informazione sostenibili nel lungo periodo: se così fosse ci troveremmo di fronte a un vero e proprio ribaltamento dei meccanismi che regolano la vita e l’economia dei media, in grado di mettere in discussione la capacità degli editori di creare consenso verso le coalizioni dominanti.

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