Il sito di Ferpi ospita un mio pezzo che parla di come definire i contenuti della professione di relatore pubblico, quando questi si dichiara anche esperto di media sociali.
Toni Muzi Falconi mi segnala un post di Mitch Joel che si chiede quali siano gli elementi che permettono a un’azienda di farsi un’idea della qualità di un professionista che si occupa di media sociali (cfr. Siamo tutti strateghi di new media?).
La domanda non è nuova, soprattutto per chi lavora in un settore come quello della comunicazione d’impresa, area professionale che ha confini sfumati e i cui contenuti evolvono con grande rapidità . Il passaggio dai media di massa, che hanno avuto regole prevedibili e costanti nel corso di decenni, ai media sociali, in cui le grammatiche sono in continua evoluzione e vengono generate dal basso, rende ancora più evidente il problema della definizione dei contenuti della professione di relatore pubblico, soprattutto quando questi si dichiara anche esperto di media sociali.
La questione delle competenze e del loro riconoscimento (in generale, ma soprattutto nei settori innovativi) va affrontata su due piani: quello della formazione e quello delle comunità professionali.
Sul primo aspetto, è un dato di fatto che gran parte della formazione universitaria in Italia è di modestissima qualità : non solo produce laureati per lo più ignoranti delle cose che avrebbero dovuto studiare, ma – cosa ancor più grave – non fornisce gli strumenti concettuali che permettano loro di esplorare un mondo in continua evoluzione. Con specifico riferimento ai percorsi formativi che riguardano la comunicazione d’impresa e le relazioni pubbliche, si deve rilevare che i media sociali sono ancora trattati in modo marginale e con riferimento solo ad alcuni aspetti specifici.
Non è un caso, per esempio, che il corso di laurea dello Iulm, approvato da Ferpi e Assorel, annoveri tra le attività vincolate un esame dedicato all’information and communication technology ma non si occupi in modo organico di media sociali neanche tra le attività a scelta (mentre, chissà perché, offre la possibilità di approfondire la progettazione di una base dati).
Lavorare con i media sociali richiede una solida e ricca impostazione culturale perché si tratta di esplorare nuovi terreni e, allo stesso tempo, necessita che la materia sia affrontata non dal punto di vista delle tecnologie dell’informazione, ma da quello delle persone che le utilizzano.
Difficile immaginare di poter agire su come è concepita l’università in Italia. Più facile pensare che le comunità professionali come Ferpi possano sopperire ad alcune delle lacune. Si tratta però di valorizzare il ruolo di comunità di pratica, che le associazioni sottovalutano preferendo la dimensione della rappresentanza di interessi e del corporativismo. Benissimo la campagna per l’istituzionalizzazione delle relazioni pubbliche, ma non si può pensare che questa abbia luogo se, davvero, come sostiene Toni Muzi Falconi, i professionisti pensano che la ricerca e la costruzione di un corpo di conoscenze delle relazioni pubbliche siano solo “pippe, pippe, pippe…†(cfr. Preghiera di fine anno di un relatore pubblico miscredente).
Tale corpo di conoscenze non può continuare a ignorare i media sociali, giacché essi sono diventati parte fondante del mestiere di relatore pubblico, così come i media di massa lo sono stati nel secolo scorso. In questo senso, le comunità professionali dei relatori pubblici (non solo quella italiana) devono costruire la teoria e la pratica del mestiere di comunicatore nell’era dei media sociali.
Ma non è sufficiente: è necessario che l’associazione si assuma l’onere di costruire dei percorsi di merito, per evitare un problema molto concreto. Chi si occupa di marketing e comunicazione, infatti, ha ancora difficoltà a capire che per fare un sito web o una intranet o una campagna di comunicazione online non deve chiamare una società di informatica. Adesso, il rischio è che ci si affidi a chiunque abbia un blog o un profilo su Facebook, chiedendogli di elaborare niente-popò-di-meno-che una strategia di utilizzo dei media sociali. Saper usare alcuni strumenti con dimestichezza è cosa ormai assai comuni tra chi è nato dopo il 1980 e può quindi essere considerato un nativo digitale, ma non è detto che all’uso sia abbinata la consapevolezza del loro valore in termini di comunicazione e di governo delle relazioni.
E’ necessario che vi sia una codifica delle competenze professionali necessarie a far si che un relatore pubblico sia anche un professionista in grado di lavorare efficacemente nel contesto dei media sociali. Ovviamente, deve esserci anche un sistema di verifica delle abilità e del loro livello.
Già sento le obiezioni: nessun professionista si presterà mai a essere valutato. Questo è molto probabilmente vero, soprattutto se prendiamo in considerazione i più stagionati e quelli che hanno raggiunto posizioni manageriali. Ma non è a loro che dobbiamo guardare, anche perché i gap generazionali sono difficili da colmare e le rendite di posizione difficili da intaccare.
Occupiamoci più pragmaticamente di coloro che entrano nella professione e di chi deve ancora fare carriera. Costoro saranno più motivati a cimentarsi con un sistema che permetta loro di dimostrare il proprio valore in una pratica professionale che rappresenta il futuro del mestiere e di ottenere come premio migliori opportunità di inserimento professionale e di carriera.
Di questi argomenti discuteremo sicuramente nel gruppo di lavoro dedicato ai media sociali appena inaugurato. L’augurio è che la discussione appassioni tutti 🙂
4 Responses
molto interessante il tuo pezzo. Una piccola nota, allo IULM c’è il mio corso di Digital Branding quasi tutto incentrato sui Social Media, poi sta partendo un Master che verrà presentato ufficialmente domani, non si può dire che l’Università stia ferma, adesso è il turno delle associazioni di categoria.
Maurizio, si lo so che esistono dei corsi specializzati che trattano di social media e comunicazione. La cosa a cui mi riferivo io era il fatto che nei curricula universitari per relatori pubblici, invece, si parla ancora di ICT e il discorso sui media sociali è affrontato in modo assolutamente marginale rispetto al resto. Invece dovrebbe essere centrale.
Ciao Nicola,
sono d’accordo con te: è chiaro che non è sufficiente avere un blog, un profilo su Facebook o sulle mille migliaia di altri social network per dirsi “esperti” di social media. Soprattutto perché nella nostra cara Italia dei tuttologi e del “siamo tutti comunicatori” ci sono molti che si dicono “esperti” di qualcosa, senza avere comprovata prova di esserlo.
Mi vedo pienamente d’accordo anche sull’ultima parte del tuo post, cioè riguardo alla “certificazione” della qualità di un professionista di relazioni pubbliche che si occupi di media sociali. Che io sappia, in Ferpi un organo che potrebbe occuparsi di questa cosa già esiste ed è la Commissione di Ammissione e di Verifica della posizione professionale, ma non conosco il regolamento, quindi chiedo venia per eventuali strafalcioni e mi rivolgo al sapiente contributo dei soci professionisti Ferpi più informati e preparati di me in questo.
L’associazione potrebbe ragionevolmente colmare una lacuna della formazione e anche acquisire un valore aggiunto da proporre al mercato e ai propri soci. La cosa potrebbe essere interessante.
Per quanto riguarda la preparazione tout court del sostrato “culturale” del professionista di relazioni pubbliche e di social media, c’è un problema di fondo ed è di natura ontologica e forse anche epistemologica: cosa sono e come definiamo i media sociali? La comunità accademica e i professionisti del “web 2.0” stessi hanno diversi dubbi e opinioni sulla questione. Forse proprio perché è un qualcosa in continua evoluzione è difficile “racchiuderlo” in quattro parole. A tale proposito trovo ancora più opportuno lavorare per – almeno tentare di – creare un ambito di sapere condiviso sul quale fare ricerca, sviluppare modelli e paradigmi che si applichino nella pratica professionale (ricerca applicata). Ancora una volta vedo un connubio tra Università e associazioni professionali non solo a livello nazionale (Ferpi e Global Alliance o Institute for Public Relations in primis) per colmare questo gap.
Altra cosa che condivido – e qui riprendo il tuo ultimo commento – è: in molti corsi di laurea di RP e Scienze della comunicazione si trattano i social media molto marginalmente. Molto spesso si studia su libri e manuali “datati” (di qualche anno o, ahimè, di qualche decennio) e tradotti in italiano, che, sebbene abbiano fatto la storia della professione, non risultano aggiornati e forse non lo potranno mai essere, visto che i cambiamenti sono così repentini. Non so se e in quanti corsi di laurea vengano proposti libri di testo stranieri, soprattutto dal mondo anglosassone, che affrontano l’argomento “social media”.
Forza, rimbocchiamoci le maniche e diamoci una mossa, tempus fugit!
Ieri alla presentazione del Master IULM c’era Invernizzi, con il cappello FERPI e c’era il presidente di Assorel, mi sembra che l’interesse sia elevatissimo e come molti hanno scritto credo che le RP siano molto più pronte delle agenzie di pubblicità a comprendere le logiche di Internet e dei Social Media. Ora è necessario che alle dichiarazioni di intento, seguano i fatti.