Voglia di startup. Famolo a Roma

Immaginiamo che io voglia fare una startup. La mia area di competenza è Internet: passo così tanto tempo connesso a osservare, esplorare e studiare gli spazi digitali che mi sembra inevitabile. Senza considerare che la rete è anche l’oggetto della mia attività di consulenza.

I business possibili online sono molti; il territorio è ampio, ricco di opportunità e potenzialmente senza confini geografici. Tuttavia, non dobbiamo dimenticare che, anche in un contesto globalizzato, agiamo sempre in un vicinato: in linea teorica ci bastano sei gradi di separazione per arrivare a qualsiasi altra persona nel mondo, ma di fatto riusciamo a partecipare a reti di relazioni piuttosto piccole, per il semplice motivo che la relazione non si può accendere e spegnere a piacimento, ma deve essere costruita e alimentata nel tempo.

In altri termini occorre fare i conti del vicinato di cui si fa parte, perché la quantità e la qualità delle relazioni che esso contiene ha un impatto determinante sulla possibilità di conseguire certi risultati.

Immaginiamo allora che io voglia fare una Internet startup in Italia, facendo leva sul mio sistema di relazioni e tenendo conto dei vincoli del contesto che mi ospita. Quali sono le aree (o le nicchie) su mi conviene puntare per massimizzare le mie possibilità di successo? Ovviamente non ho una risposta definitiva, ma credo di poter dire che non mi impegnerei in un’impresa che:

  • richieda un massiccio sviluppo di tecnologia, perché non mi sembra che ci sia un mercato di capitali di ventura in grado di sostenerla per il periodo necessario a passare dall’idea a un prodotto commerciabile;
  • richieda un lungo periodo di incubazione alla ricerca di un modello di business profittevole, perché in Italia non ci sono i finanziatori adatti né l’ecosistema in grado di sostenere esperimenti su larga scala come è accaduto con Twitter o YouTube;
  • preveda come principale way out la vendita dell’intera società a una grande azienda, perché in Italia è difficile che una società di telecomunicazioni o un qualsiasi attore del sistema dei media acquisti una startup per introdurre innovazione;
  • produca prodotti o servizi per grandi aziende, perché molto probabilmente finirei a fare il subfornitore di una grande società di consulenza o di un system integrator che ha accordi quadro blindati.

Penso invece che ci siano grandi opportunità nel mercato consumer e soho (small office home office) e che il fatto di essere in Italia porti con se un vantaggio intrinseco legato alla lingua. Se si fa un prodotto o un servizio online che gli utenti sono disposti a pagare, infatti, Internet offre la grande opportunità di poter disporre di un canale di distribuzione che non è sottoposto a regimi monopolistici od oligopolistici. La stessa cosa non accade in altri settori: quando si ha a che fare con i beni fisici, per esempio, il problema è accedere al canale di distribuzione che permette di collocare la merce sullo scaffale di un punto vendita. Nella stragrande maggioranza dei casi si tratta di monopoli.

Sul fronte della lingua, contrariamente a quello che sostengono molti, concordo con Francesco Sullo quando dice che realizzare un prodotto in italiano e in inglese in realtà è un vantaggio, non fosse altro per il fatto che si è obbligati a studiare l’interfaccia per due lingue che hanno una struttura grammaticale completamente diversa. In questo senso, credo che varrebbe la pena approfondire e strutturare un approccio glocal alle startup, anche solo per una questione di difendibilità rispetto ai grandi player americani: non dimentichiamo che le uniche zone del mondo in cui Facebook stenta ancora a penetrare sono quelle in cui nel frattempo si è affermato un competitor che lavora nella lingua locale. Allo stesso tempo, l’unico modo per Groupon di espandersi velocemente in Europa è stato acquistare il competitor locale che lavorava nelle lingue dei singoli paesi.

In definitiva, penso che in Italia si abbiano più possibilità se si pensa di fare una startup con un prodotto consumer che possa essere commercializzato direttamente online senza intermediazione e un approccio glocal al mercato privilegiando una soluzione facilmente e velocemente localizzabile in crowdsourcing fin dall’inizio.

Anzi un approccio super glocal: la mia startup la vojo fa’ a Roma 🙂

17 Responses

  1. Roma è una grande piazza, in grado di attrarre gente da tutto il mondo per ovvie e ben consolidate ragioni. Una buona cosa sarebbe se un po’ di startup si mettessero insieme in cerca di uno spazio sufficientemente grande da ospitarne decine. Così loro si prendono quattro stanza, ed altre sei le tengono per altre startup. Si crea cioè una sorta di auto-incubatore proattivo.

  2. Se si vuole fare una startup a Roma… Ci sono anche diverse possibilita’ di finanziamenti pubblici… Es. BIC per over 45 ..oppure legge bersani per la periferie… Parte del finanziamento e’ a fondo perduto!

  3. Bel post! D’accordissimo sulla scelta della lingua locale come punto a favore nei confronti dei competitor americani.. strategia sulla quale la nostra azienda sta puntando per ogni paese sul quale cominciamo a lavorare tra cui proprio l’Italia. Viva il glocal, non facile ma sicuramente efficacie 🙂

  4. Insieme a un mio amico/socio abbiamo creato una startup USA ma lavoriamo entrambi a Roma, ciascuno da casa sua o insieme quando necessario.

    Non sto qui a dirvi che sarebbe stato impossibile continuare la nostra attività con una forma societaria italiana.

  5. Di che si tratta? Magari ricade nel mio campo…e allora sarei molto interessato