Una startup ha vari stadi di sviluppo. Il primo è quello dell’idea: in questa fase, non c’è ancora un prodotto funzionante e l’imprenditore non ha ancora dimostrato di aver individuato un bisogno reale e una soluzione che lo soddisfi. Il rischio di insuccesso è molto alto e occorre capire qual è il percorso da fare e chi sono i compagni di viaggio.
Capire e disegnare il percorso significa testare le ipotesi di partenza e verificare che abbiamo effettivamente individuato la soluzione a un bisogno (invece che una soluzione in cerca di un problema), che questa soluzione può diventare un prodotto e che, infine, il prodotto può diventare un’azienda perché è possibile costruire un modello di business sostenibile. Probabilmente, il modo più sensato di procedere è adottare il modello del customer development descritto da Steve Blank in The Four Steps to the Epiphany. Per le Internet company ne esiste una declinazione operativa, la Lean Startup, messa a punto da Eric Ries.
Capire chi sono i compagni di viaggio, significa individuare i fondatori e gli investitori, ossia chi decide di condividere il rischio di impresa investendo denaro, tempo, competenze, sogni. Sì, anche i sogni, soprattutto se si vuole coltivare una dimensione etica del fare e del creare invece di ridurre tutto all’accumulazione di denaro.
I fondatori sono l’anima della startup, condividono l’obiettivo e la visione, mettono le competenze settoriali necessarie a realizzare il prodotto o il servizio, investono in passione, tempo e – se ne hanno – denaro. Senza di loro una startup non può esistere; se decidono di perseverare nonostante le difficoltà l’impresa va avanti; se decidono di mollare, il progetto muore. Gli investitori, invece, hanno un coinvolgimento circoscritto ai capitali (materiali e immateriali) che apportano al progetto. A volte sono privati che credono nell’iniziativa (amici, parenti o persone benestanti che impiegano i propri risparmi); altre volte sono professionisti (business angel, venture capitalist).
Tipicamente, le varie tipologie di investitori intervengono in momenti diversi della vita di una startup. La creazione dei primi prototipi viene spesso finanziata dall’imprenditore, dagli amici, dai parenti e dai folli. Oppure da professionisti come i business angel e gli incubatori. I venture capitalist intervengono in una fase successiva, quando il prodotto esiste e ha dimostrato di avere delle potenzialità commerciali.
Nel mondo delle Internet startup, sempre più di frequente il passaggio dall’idea al prototipo è finanziato con un microseed investito da acceleratori come gli americani 500startups, YCombinator, Techstars o l’inglese SeedCamp, che contribuiscono con soldi (da 20 a 100 mila dollari) e mettendo a disposizione dello startupper un ventaglio impressionante di mentori, che li aiutano a concretizzare il progetto.
Gli ingredienti di un acceleratore sono tre: soldi, apprendimento e relazioni. Vengono forniti i capitali necessari a sostenere il gruppo di lavoro e ad acquistare risorse e competenze che non sono già presenti nel team per un periodo di alcuni mesi; i mentori forniscono la propria esperienza e mettono a disposizione la propria rete di relazioni. In questo schema, è evidente che i soldi sono la cosa che vale di meno.
Troppo spesso chi fa una startup concentra la sua attenzione sulla mancanza di soldi, dimenticando che il denaro tout-court non produce valore. Anzi, a volte può produrre l’effetto contrario a quello desiderato. E se provassimo a farne a meno?
Con Fabio Lalli stiamo tentando di mettere a punto una versione del microseed in cui il denaro viene sostituito direttamente dalle competenze che con esso vengono comprate. Lo abbiamo chiamato human microseed prendendo spunto da un commento di Dario Barilà in una discussine nel gruppo Italian Startup Scene.
Lo schema è semplice: chiedo a chi ha le competenze ma non i capitali se è disposto a investire nella startup apportando il proprio lavoro. In questo modo ottengo due risultati:
- integro il team dei fondatori con persone che hanno il know how che manca ma che, allo stesso tempo, hanno voglia di mettersi in gioco e non si considerano solo fornitori o dipendenti della startup;
- distribuisco il rischio del bootstrap, perché ci sono più persone che credono nelle potenzialità del progetto, ci mettono la testa e il cuore.
Gli human microseeder non sono fondatori della startup, ma dei finanziatori a tutti gli effetti: partecipano al rischio di impresa acquisendo delle quote che possono valere tanto o nulla. La monetizzazione dello human microseed avviene come in quello finanziario. L’obiettivo di questo investimento, infatti, è finanziare lo sviluppo di un prototipo che dimostri la potenzialità dell’idea in modo da accedere a un seed vero e proprio, che ha una dimensione tale da garantire la creazione della startup come azienda.
Facciamo un esempio pratico, per capire il funzionamento. Come nei teoremi matematici partiamo da alcuni assunti:
- vogliamo realizzare un servizio online e abbiamo valutato che per lanciare la nostra startup, oltre al tempo e alle altre risorse messe a disposizione dai founder, siano necessari 200 giorni uomo di impegno di diverse figure professionali (sviluppatori, sistemisti, community manager, grafici e via dicendo);
- stabiliamo che ogni giorno uomo valga 250 euro e che l’investimento complessivo ammonti quindi a 50.000 euro;
- a fronte di questo investimento, i fondatori sono disposti a cedere il 10% del capitale sociale della costituenda azienda;
- la quota del 10% rimane fissa: questo significa che se l’impegno richiesto fosse minore, il valore della singola giornata di lavoro sarebbe maggiore di 250 euro. E, viceversa, se il l’impegno necessario fosse stato sottostimato, ci sarebbe una diluizione dell’investimento.
E’ ovvio che questo schema funziona solo se si prevede di riuscire a testare la potenzialità del business con un impegno circoscritto alle risorse conferite dai fondatori più 200 giorni uomo messi a disposizione dagli human microseeder. Dati gli assunti, se tutto sarà andato per il meglio, nell’arco di qualche mese dovremmo essere riusciti a realizzare un servizio che dimostra delle potenzialità commerciali e quindi è appetibile per un venture capitalist che investe in questo stadio di sviluppo (seed). Nella migliore delle ipotesi, dovremmo essere già in grado di fatturare e avere i primi clienti (per esempio, un’app per iPhone che viene venduta). Nella peggiore delle ipotesi, staremmo analizzando che cosa è andato male e che cosa abbiamo imparato.
Stiamo facendo un esempio, siamo autorizzati a essere ottimisti. 😉 Poiché abbiamo in mano un prodotto promettente, decidiamo di andare alla ricerca di un seed per accelerare lo sviluppo e cercare di scalare. Troviamo un venture capitalist interessato a investire 500.000 euro a fronte del 30% del capitale, il che significa che la startup sarebbe valutata nel complesso 1.666.000 euro. Se questo fosse vero, il 10% investito dai microseeder si sarebbe apprezzato di oltre 3 volte e al momento del seed varrebbe 166.000 euro. Ma sono necessarie due precisazioni, perché si tratta di:
- valori teorici, che non corrispondono a moneta contante ed è molto probabile che sia opportuno inserire dei vincoli sulla possibilità di cedere le quote per monetizzarle in questo stadio di vita della startup;
- un calcolo estremamente grossolano, quindi chiedo venia ai puristi delle valutazioni pre-money e post-money e di tutti gli altri cavilli del caso.
Allo stesso tempo, è utile sottolineare che nel momento in cui la startup dovesse veramente avere a disposizione i soldi per andare avanti e iniziare a strutturarsi, avrebbe tutto l’interesse ad assumere gli human microseeder se essi lo desiderassero.
Se avete avuto la pazienza di leggere fin qui, probabilmente vi saranno venute in mente molte domande e obiezioni. Scrivetele nei commenti, perché stiamo lavorando a mettere a punto il modello e tutti i suggerimenti sono più che benvenuti.
Nella prossima puntata, affronterò la questione del mentoring e delle relazioni.