Riflessioni sul rapporto tra innovazione e finanza / 2

Seconda puntata delle riflessioni sul rapporto tra innovazione e finanza. Entriamo nel merito della critica di Luca De Biase al fondamentalismo digitale, contenuta nel libro edeologia. Secondo l’autore, gli elementi strutturali della deriva edeologica sono quattro.

Retorica esponenziale
Per esperienza, siamo abituati a fenomeni che crescono linearmente, ossia un po’ alla volta: questo accade generalmente alle aziende in salute che incrementano i propri risultati anno su anno di punti percentuali. Le aziende particolarmente performanti riescono a crescere a due cifre e quelle che raddoppiano o triplicano i propri giri di affari da un anno all’altro sono l’eccezione. Durante la new economy, invece, l’eccezione era diventata normalità: i tassi di crescita erano sempre esponenziali e seguivano quelli che le leggi di Moore e di Metcalfe avevano codificato per la tecnologia.
Immaginare che qualcosa cresca esponenzialmente e all’infinito equivale a dire che rimane sempre nella sua infanzia, che non vi è possibilità di maturazione ed eventualmente declino. In realtà le cose non stanno così: anche piattaforme pervasive come Facebook hanno un punto oltre il quale non possono crescere e, allo stesso tempo, la loro utilità non può aumentare all’infinito.

Futuro prevedibile
Il senso comune, come la cultura tradizionale, vede il futuro come il tempo successivo al presente. Un tempo che nessuno ovviamente ha mai visto. Ma nella prospettiva edeologica, il futuro deve essere invece conoscibile, altrimenti non si scommetterebbe abbastanza accanitamente sull’innovazione tecnologica: «e la soluzione è, sorprendentemente, la trasformazione del futuro da tempo a luogo». Di conseguenza il futuro diventa un posto dove si può andare e da cui si può tornare, come pretendevano (e pretendono) di fare molti guru ed evangelisti. Nella cultura digitale è radicata l’idea che ciascuno possa intraprendere la costruzione del proprio futuro. Questa visione è senza dubbio assai favorevole all’innovazione, ma deve convivere con la consapevolezza che alle nostre azioni intenzionali corrispondono anche conseguenze inintenzionali.

Distanza zero
A differenza di quanto avviene con il telefono o il fax, «una volta entrati nel cyberspazio non c’è differenza né economica né qualitativa tra la comunicazione a breve e a lunga distanza»: se ne deduce che la Rete di fatto abolisce le distanze e dunque le distinzioni geografiche. In realtà, la Rete è una macchina per abbattere i costi di comunicazione, rendendo totalmente diversa la relazione fra interlocutori lontani tra loro, ma non elimina per nulla l’importanza della localizzazione degli interlocutori stessi.
Da un lato, la tecnologia non è omogeneamente distribuita. Dall’altro lato, le persone si sentono più a loro agio con relazioni di prossimità sia per questioni emotive che pratiche. Non è un caso che i venture capitalist della Silicon Valley investono in aziende localizzate nella valle: ci sono questioni regolamentari e i vantaggi della vicinanza che permette incontri frequenti e la possibilità di fare leva sulla fittissima rete di relazioni che unisce imprenditori, investitori, esperti, early adopter, evangelist che testano, valutano e promuovono nuovi servizi.

Chi vince prende tutto
All’epoca in cui De Biase ha scritto edeologia, i ricercatori dello Xerox Parc osservavano che i navigatori tendevano a concentrarsi sui siti più popolari e ad abbandonare progressivamente quelli meno visitati. Di conseguenza, «una delle dinamiche più interessanti che si sono andate alimentando nel settore è stata quella che ha portato le aziende, i portali, le organizzazioni e le comunità a cercare di conquistare in fretta il maggior numero possibile di utilizzatori per poter conquistare quel primo posto nella classifica che sembrava destinato a garantire grande prosperità». Prima erano i portali generalisti, poi i vortal (ossia i portali verticali) e via di seguito con nuove tipologie di siti. Durante la new economy il marketing divenne la funzione centrale e il principale investimento delle aziende orientate a sfruttare il boom della Rete: le dot-com usarono la stragrande del capitale raccolto per remunerare le banche e acquistare pubblicità.

Il sistema organizzato di idee legate alla new economy serviva a sostenere la corsa all’oro scatenata dai venture capitalist: dopo le prime quotazioni avvenute con successo, la seconda ondata di dot-com «non nasce più con l’obiettivo di realizzare un prodotto ma di portare un business plan all’attenzione degli investitori, fondare un’azienda, spendere quasi tutto il capitale in pubblicità e andare in Borsa». Lo stesso concetto di nuova economia è stato inventato proprio per postulare la comprensibilità dell’incomprensibile: com’era possibile che aziende appena nate, con bilanci in perdita e con nessuna prospettiva di arrivare all’utile in breve tempo, fossero valutate dalla Borsa alcune decine di miliardi di dollari? Ci volevano parametri di valutazione che non fossero quelli dell’economia tradizionale:

E benché nessuno sia mai arrivato a produrre una teoria completa e solida di tale nuova economia, è bastato evocare l’idea della sua esistenza per soddisfare una larga fetta di investitori, analisti e osservatori che non potevano comprendere quello che avveniva durante la bolla speculativa ma desideravano ardentemente ritenere che i fenomeni cui partecipavano avessero una logica e una comprensibilità. L’ambiguità del concetto di nuova economia, peraltro, ha finito col perdere la partita con la realtà: i suoi propugnatori la usavano per decretare la «morte del ciclo economico» e la fine della disoccupazione. I primi anni del nuovo millennio li hanno smentiti, spazzando via le loro idee. E buttandone via anche gli aspetti migliori.

Nella terza puntata, faremo un bilancio con Luca De Biase con l’obiettivo di capire se esiste una sana ideologia dell’innovazione, quali sono le sue caratteristiche e che contromisure adottare per evitare un rinnovarsi dell’edeologia.

One Response

  1. Caro Nicola, purtroppo questa edeologia pervade sempre di più anche il contesto italiano. Da un po’ mi interrogo se sia il caso ancora una volta di seguire modelli economici e di sviluppo che non ci appartengono. Le grandi aziende italiane da sempre hanno i cognomi dei fondatori come brand, dai Borsalino, ai Pavesi, ai Barilla, ai Ferrari, Pirelli ecc. ecc.. E invece anche qui in Italia c’è posto e attenzione solo per le aziende rapidamente scalabili, le sole che ottengono attenzione del club dei piccoli capitalisti nostrani. Vogliamo giocare in una serie che non ci appartiene e ci stiamo dimenticando che il nostro patrimonio nazionale e tradizionale è fatto di altro. E mentre le nostre terre vengono abbandonate dai figli che fanno le startup school un giorno quando tutta la farsa della finanza sarà finita ci ritroveremo senza sapere più zappare 😉