Prendo qualche appunto sull’evento Digitalife Camp. L’ecosistema dell’innovazione a Roma: quale futuro? che ha un ricchissimo panel di relatori:
- Alessandro Rossi di Tiber Capital Parteners, una società di advisoring per startup e per fondi;
- Roberto Macina, fondatore di Qurami;
- Michele Festuccia, leader of Innovation and Adjacencies di Cisco Italia, un programma che supporta le startup che usano i prodotti dell’azienda;
- Luigi Capello, fondatore di Enlabs;
- Marco Sgroi, coordinatore di Baia Netowrk;
- Peter Kruger, fondatore di Ezecute una società che fornisce servizi di consulenza alle startup;
- Steven Truman, direttore di Sapienza Innovazione;
- Augusto Coppola, co-fondatore di InnovactionLab;
- Gerardo Lancia, direttore dei distretti tecnologici di Filas.
18:30 Sono un po’ impressionato dal fatto che ci sono ben tre soggetti che fanno consulenza alle startup più un acceleratore più un ente che agevola gli spin off universitari. Il che farebbe presupporre che ci sia una grande quantità di startup da assistere sul territorio romano 😉
18:40 Interessante l’intervento di Michele Festuccia di Cisco: fanno scouting per trovare delle startup che siano in grado di sviluppare dei concept per soddisfare i bisogni che loro hanno individuato sul mercato. Uno dei segmenti su cui stanno cercando competenze è quello dei big data perché l’azienda è entrata nell’area del computing e hanno bisogno delle competenze per presidiare alcuni verticali ben precisi.
18:45 Si pone il problema dell’ecosistema e dell’opportunità o meno che vi sia un coordinamento tra gli attori del sistema. Io penso che non sia desiderabile che vi sia un leviatano dell’innovazione, ma che un ecosistema dell’innovazione possa definirsi tale solo se è decentralizzato, meritocratico e reticolare.
18:55 Si può usare la crisi come fionda per nuove avventure imprenditoriali? Secondo Stephen Trueman sicuramente sì se guardiamo agli incubatori, perché le aziende devono cominciare a uscire dalla fase di incubazione e andare sul mercato. Cosa dovrebbe fare lo Stato per eliminare le frizioni regolamentare? Secondo Coppola c’è un fondamentale problema di competenza dei regolatori, che non riescono a capire la differenza tra una startup ad alto potenziale internazionale e una startuppina che si indirizza a un mercato locale.
19:00 Peter Kruger ricorda alcune proposte avanzate recentemente: 1. il fondo dei fondi, 2. gli sgravi fiscali, 3. la semplificazione delle procedure di costituzione e liquidazione, 4. la creazione di un mercato delle exit. Devo dire che non sono particolarmente convinto sui primi tre punti, mentre il quarto punto non è una cosa che ci può calare dall’alto.
19:05 Secondo Capello, l’errore fondamentale dei fondi HT riguarda la scelta dei gestori e la dimensione dei fondi che sono troppo grandi e quindi costretti a concentrarsi su investimenti in una fase avanzata.
My 2 cents sulle cose dette finora. Occorre essere molti attenti a definire il settore delle startup, perché una cosa è fare un distretto dell’aerospazio dove gli investimenti in ricerca e sviluppo sono enormi; un’altra cosa è fare startup nell’area dell’ICT dove finanche l’infrastruttura viene offerta come servizio. Questa distinzione non è stata ben evidenziata da nessuno dei relatori.
In secondo luogo, c’è sempre troppa enfasi sui soldi e sempre troppa poca enfasi sul know how. Anche avendo tanti soldi, se non ci sono le competenze non c’è modo di fare una nuova azienda, a prescindere dal settore.
19:20 Finalmente Trueman dice che manca la cultura del fare impresa, anche se il passaggio è molto – troppo – veloce.
19:30 Intervento puntuto di Alessandro Nasini: «qui ci dimentichiamo che una startup è un’impresa in cui c’è un imprenditore che rischia in proprio. Invece, dalla mia piccola esperienza di business angel, tanti vogliono fare una startup ma la vogliono fare con i soldi dei venture capital senza rischiare in proprio».
Alle 19:40 è morto il cellulare e con lui la connessione a Internet…
5 Responses
Con tutte le donne che si occupano di questi temi… forse potevate almeno averne una per questo convegno… una eh? Non pari opportunità … una 🙂
La posizione di Nasini mi sembra francamente assurda, se l’hai riportata correttamente. Se lo startupper fosse in grado di assumersi anche l’onere economico il venture capital cosa avrebbe da mettere sul piatto per partecipare al business? Inoltre già l’effort per sviluppare idea e prototipi mi pare un investimento economico considerevole per chi ha anche (sperabilmente) un’attività lavorativa a cui far fronte quotidianamente.
Nicola
Aggiungo il mio “cent” ai tuoi: fare impresa sviluppando applicazioni software nei dowstream market delle tecnologie spaziali (i.e. satnav, eo, satcom) non richiede sempre ingenti investimenti. Vi sono interessanti studi ad es. della Galileo Supervisory Authority in tal senso.
All’uopo segnalo un evento il 13 novembre p.v. di ricerca partner di due start up appena incubate che cercano partner:
http://www.lazio-aerospazio.it/web/guest/focus1/-/asset_publisher/7pM8/content/graduation-day-esa-bic-italy?redirect=%2Fweb%2Fguest%2Ffocus1
Ciao
G.
Rispondo ad Andrea Martines, chiarendo meglio il concetto (riportato peraltro correttamente da Nicola ma con l’inevitabile limite della sintesi).
Molti startupper (aspiranti tali, per esser precisi…) si rivolgono ai VC avendo in mano null’altro che la semplice idea. Nessuno sviluppo del concept, nessun business model, niente BP o BP di pura fantasia basati sulla presunzione di esistenza di mercati pronti ad accogliere l’offerta, nessun prototipo. Morale? Molte idee (una percentuale delle quali magari anche buone…) rimangono un nulla di fatto. Un VC – questa la mia opinione, libero chiunque di dissentire… – non serve a finanziare la startup in questa fase pre-embrionale. Un VC (magari serio…) ha un ruolo fondamentale a partire dalla fase successiva.
Migliaia di imprese nascono ogni hanno ovunque in ogni parte del mondo finanziate inizialmente con soldi propri (dei founder, della famiglia dei founder, degli amici dei founder, facendo funding online…) ed è asssolutamente “sano” che ciò avvenga.
Non c’è impresa senza rischio d’impresa. Il sapere che si ha “molto da perdere” (compreso restituire i soldi avuti in prestito…) è una leva potentissima verso il successo.
Grazie Alessandro per la precisazione, così effettivamente ha senso. Va detto però che far fallire un’impresa (non truffaldinamente) in Italia è un evento molto piú definitivo e marchiante che altrove, e questa differenza locale di peso specifico andrebbe considerata e compensata dal VC con l’assunzione di parti maggiori del rischio, altrimenti il progetto su cui investe avrà sempre uno squilibrio competitivo nella capacità di “osare” rispetto ai competitor stranieri. My two cents.