Luca Tremolada firma la copertina di Nova24 di oggi con un pezzo sulle iniziative italiane a favore delle startup. Del tema abbiamo parlato per email qualche giorno fa: recupero il testo del messaggio da cui Luca ha tratto alcuni virgolettati per il suo articolo.
Un ecosistema delle startup digitali in Italia? Ci sono segnali positivi che sia possibile farlo anche in Italia, nonostante il contesto in cui ci muoviamo sia meno facile che in altri Paesi. Innanzitutto, molti giovani sono ben consapevoli che cercare un lavoro soddisfacente in tempi ragionevoli è un’impresa a volte improba: tutto sommato è meglio provare per qualche anno ad avviare la propria azienda piuttosto che passare di stage in stage. La riforma del lavoro in discussione contribuirà a rendere ancora più debole l’idea che esiste un lavoro tutelato a cui aspirare.
In secondo luogo, la Silicon Valley è diventata molto più vicina di quanto non lo fosse quindici anni fa all’inizio della new economy: gli imprenditori italiani frequentano giorno per giorno i loro coetanei americani, leggono le loro imprese e vogliono emularli. Alcuni di loro gettano il cuore oltre l’ostacolo e partono per il Far West. Anche senza arrivare negli Stati Uniti, ci sono le città europee che offrono molte opportunità a chi vuole fare impresa nel digitale: Londra con la sua Tech City, Berlino e adesso anche Amsterdam. C’è una contaminazione culturale.
In terzo luogo, ci sono imprenditori di seconda generazione che non si accontentano di fare il mestiere dei loro genitori, perché sanno che i modelli dell’industria manifatturiera che li hanno resi ricchi diventano ogni giorno più fragili. E’ il caso, per esempio, del gruppo che si è stretto attorno a Riccardo Donandon in H-Farm, che sta costruendo un vero e proprio distretto del digitale in un luogo dove le fabbriche chiudono giorno dopo giorno. Si tratta di un incubatore che si ispira esplicitamente ai modelli della Silicon Valley, come fanno le strutture di questo tipo in tutta Europa. In Italia non è il solo: c’è Enlbas di Luigi Capello a Roma e poi i piccoli fondi che fanno microseed come Annapurna e le reti di business angel.
Ancora, c’è una crescente consapevolezza che il digitale è un settore che ci possiamo permettere, anche se sul territorio non ci sono particolari vocazioni o centri universitari in grado di competere per qualità e quantità della ricerca con i grandi atenei universitari. Nella maggior parte dei casi, il digitale non richiede grandi investimenti di ricerca e sviluppo e una startup può partire con poche decine di migliaia di euro di finanziamento. Inoltre, ci sono amministrazioni come la provincia di Trentino che, avendo esaurito una certa vocazione industriale, hanno deciso di puntare decisamente su questo settore facendo ponti d’oro alle grandi aziende e alle istituzioni che decidono di insediarsi sul loro territorio.
Infine, ci sono segnali che qualche azienda di grandi dimensioni possa uscire dalla logica del sostegno ai talenti e all’innovazione come capitolo da inserire in un bilancio di responsabilità sociale, passando a investire seriamente nel capitale di rischio delle startup come fattore strategico di crescita e di gestione del cambiamento.
Ma, un’ecosistema delle startup digitali non è solo possibile. E’ anche decisamente auspicabile perché più startup digitali significano maggiore innovazione nei media e quindi un’accelerazione nel cambiamento sociale e culturale del nostro paese.