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Qual è il ruolo digitale nelle esportazioni italiane (update)

Cito un altro brano dal libro di Elserino Piol, Per non perdere il futuro. In queste righe si parla dell’importanza delle esportazioni:

Il problema dell’esportazione è centrale per il futuro dell’Italia, perché i soldi che non entrano con le esportazioni possono arrivare solo in due modi: con gli investimenti esteri diretti, che sarebbe la soluzione migliore, ma in Italia non ne arrivano abbastanza perché bene pochi li trovano facili e convenienti, oppure con flussi finanziari, ovvero con capitali esteri che comprano titoli di Stato oppure azioni e obbligazioni di imprese italiane. Bisogna quindi rafforzare le esportazioni, nonostante che siamo a rischio in tutti i nostri settori tradizionali di esportazione. Quello che conta è come incentivare le esportazioni sul lungo periodo. Se vi sono settori promettenti vanno incentivati con decisione. Celebriamo le aziende che esportano, perché sono quelle che portano acqua al mulino del benessere.
Il valore del made in Italy non è una specie di rendita (e non è in alternativa ai valori delle nuove tecnologie). L’unico modo per preservarlo è farlo fiorire e rafforzarlo. E dunque dobbiamo, su questo talento, investire in formazione, ricerca, cultura, cooperazione, facendo sistema, in Italia e all’estero. Non ostacolando, ma affrontando e guidando i processi di forte ristrutturazione che il mutare del contesto competitivo richiede. La valorizzazione del made in Italy è la valorizzazione dell’Italia e della cultura italiana e non è compito di qualche organismo pubblico. Quello che è necessario è un lavoro corale culturale che deve coinvolgere tutte le migliori e più vive forze del paese, da quelle delle strutture produttive a quelle culturali e formative.
Esiste un modello italiano che non è stato valorizzato a sufficienza. Alla fine degli anni Settanta, infatti, le aziende italiane che cooperavano nel campo della moda sono state le prime a ribaltare il sistema che poneva l fabbrica al centro dell’impresa. Fino ad allora gli aspetti immateriali legati alla comunicazione, alla pubblicità e alla distribuzione erano in generale delegati all’esterno; mentre la produzione rappresentava il cuore dell’attività aziendale. Nella moda, al contrario, per la prima volta la produzione è stata affidata ad altri, mentre l’azienda manteneva il controllo degli aspetti immateriali. Progettazione, comunicazione, pubblicità, strategia di marca, distribuzione sono così diventate la nuova realtà dell’impresa. Un modello poi ricalcato in tutto il mondo da aziende operanti in ogni settore. Quindi non manca, nel DNA italiano, una cultura della crisi capace di trasformare le carenze in punti di forza. Sarebbe paradossale che questa venisse meno nel momento in cui si afferma un capitalismo culturale che sembra tagliato su misura per noi. Un sistema nel quale le imprese sono chiamate a trasformarsi in operatori culturali, protesi a creare intorno ai propri prodotti mondi interessanti e ricchi di capitale simbolico.
Anche nella moda le nuove tecnologie hanno un impatto, consentendo innovazioni organizzative, materializzate da nuove iniziative come Yoox. Si tratta di una impresa che da un lato agisce come un sito di vendita on line, focalizzato sull’alta moda, dall’altro come una infrastruttura tecnologica con la quale dare potenza ai siti per le vendite on line dei maggiori protagonisti della moda e del design (Armani, Diesel, Marni e altri). Federico Marchetti, Ceo di Yoox, ritiene che il successo della sua impresa, con le competenze distintive nella moda e nel design, sia un significativo esempio di strumento di innovazione per la commercializzazione del made in Italy.
In conclusione, saremo capaci di gestire una strategia di ripresa che consenta al sistema Italia di guadagnare competitività? Molto dipende dalle risposte a queste domande. Il governo vuole davvero mettere l’innovazione in cima alla lista delle priorità? Gli industriali sono disposti ad abbandonare i settori a bassa tecnologia, ormai maturi? I sindacati sono in grado di affrontare i costi sociali di una politica di stimolo all’innovazione? Le università e i centri di ricerca sono pronti a misurarsi fra loro in modo competitivo, sulla base del merito, senza cercare rifugio nell’assistenza statale? Il sistema finanziario è disposto ad abbassare le soglie di rischio per investire in aziende innovative?

Mi chiedo se una florida industria del digitale possa essere un motore di esportazioni di servizi in grado di compensare almeno in parte il declino delle esportazioni di beni fisici che non siamo più in grado di produrre per via della concorrenza dei paesi in via di sviluppo. Non ho una risposta, quindi lo chiedo a chi è più competente di me, per esempio Luca De Biase che in questo periodo sta attivamente collaborando con il ministero dello sviluppo economico come membro della task force sulle startup digitali.

UPDATE. Luca De Biase mi risponde in questo post. Su Facebook, si apre una piccola discussione in cui mi segnalano questo articolo del Sole 24 Ore sulla forza del made in Italy.

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