Riporto un brano tratto da Per non perdere il futuro di Elserino Piol. Il tema riguarda il ruolo delle startup in un sistema industriale e il ruolo delle multinazionali tascabili nella crescita del nostro Paese.
Quale deve essere il motore dello sviluppo per un paese come il nostro? Una prima ovvia risposta è che i nostri interventi andrebbero focalizzati sulla piccola e media impresa, con un corretto modello di trasferimento delle conoscenze dai centri di ricerca alle imprese. Si richiederebbe anche il coinvolgimento di grandi imprese, ma in Italia non ve ne sono a sufficienza. Ma è anche necessario avviare un numero considerevole di nuove aziende (le cosiddette start up) in quanto le più adatte a recepire nuove tecnologie. Non avere start up di alta tecnologia significa essere fuori dagli sviluppi più innovativi prossimi venturi. Infatti:
- la grande azienda può catturare nuove tecnologie, ma non lo fa se non sono in linea con le attività esistenti nell’azienda (e poi si muove tardi in quanto non sempre strutturata per raccogliere segnali deboli sulle innovazioni e riconoscerli come tali dai vari comitati). Ma di quali grandi aziende parliamo?
- le medie aziende, specie se di successo, sono molto focalizzate sul loro core business. Recepiscono bene e rapidamente l’innovazione se riguarda il core business, ma non si lasciano distrarre da tecnologie, anche molto promettenti, se ciò richiede di uscire dal focus;
- le start up sono il modo più efficace per acquisire e sviluppare nuove tecnologie e innovazioni e la Silicon Valley in Usa lo sta dimostrando da almeno quarant’anni.
Viene spesso utilizzato il termine PMI, per raggruppare in un’unica definizione le piccole e le medie imprese. Niente di più sbagliato: la problematica delle picole imprese è del tutto diversa da quella delle medie imprese.
Nelle piccole imprese è necessario distinguere tra le imprese bambine con il DNA della crescita, che nel tempo potranno diventare medie o anche grandi, e le imprese nane che piccole sono e piccole resteranno. Alcune imprese sono leader mondiali di nicchia e possono diventare delle piccole multinazionali (definibili come multinazionali tascabili), se vivono in un ambiente a loro favorevole, cioè se vivono il sistema Italia come un vantaggio competitivo.
Le multinazionali tascabili sono le imprese da sostenere con priorità . Sono caratterizzate da: 1) leadership competitiva, in settori ad alto valore aggiunto; 2) governance, da familiare evoluta a presenza di private equity; 3) presenza sui mercati internazionali. Viene da chiedersi come facciano a essere così brave. La prima risposta è che si tratta di imprese nelle quali il processo decisionale è velocissimo (errori compresi). Insomma pochissima burocrazia e molta flessibilità : un’enorme capacità di stare sul mercato. La seconda risposta è che si tratta di aziende che operano nella parta alta del mercato.
Dobbiamo prendere atto del fatto che il nostro futuro industriale ed economico ora si gioca su un pugno di queste medie aziende, ben fatte e ben piazzate sui mercati italiani e internazionali. Si discute quante siano. Le aziende di cui si parla sono poche e nessuna di queste, con ogni probabilità , rimpiazzerà mai i grandi gruppi scomparsi come dimensione. E questo non per incapacità dei loro proprietari e manager, ma per le caratteristiche del loro lavoro, di quello che fanno.
Molto spesso il loro successo deriva dall’essere strategicamente focalizzate e specializzate in uno stretto segmento di mercato.
One Response
Ottimi spunti Nicola.
Contribuisco segnalando che la fase critica per quelle che hai definito ‘multinazionali tascabili’ è il passaggio da wannabe a competitor sul mercato internazionale. La sfida è mantenere quella velocità decisionale e di esecuzione su terreni più ambizioni e complicati. Non è facile, soprattutto quando anche il team subisce inevitabilmente una lievitazione quantitativa importante. Si allunga la catena, si moltiplicano le criticità ma deve essere mantenuta alta l’efficacia. E’ una bella sfida. Chi sottovaluta questo passaggio rischia di saltare sotto le pressioni che arrivano. Vendere in Cina, Stati Uniti, Turchia e Francia, per alcuni prodotti (per esempio i tools apps per i publishers) partendo dall’Italia è tutt’altro che banale.