Qualche tempo fa un amico mi ha chiesto un parere sulla creazione di un acceleratore per una grande azienda. Riporto alcune delle considerazioni che gli proposi: si tratta di argomenti che ho già trattato in vari post di questo blog, ma mi sembra utile condividere un ragionamento organico su quali dovrebbero essere gli ingredienti di un acceleratore promosso da una grande azienda.
***
L’obiettivo è sostenere il percorso di startup di un’azienda. Da questo punto di vista ci sono due aspetti che vanno tenuti in considerazione. Il primo riguarda il metodo e il secondo riguarda il contesto.
Metodo
Il metodo impiegato oggi da tutti gli acceleratori di maggior successo è il customer development: l’obiettivo è raggiungere il “product market fit” ossia la commerciabilità del prodotto un passo alla volta, partendo da qualcosa di molto piccolo e poi ampliandolo. Questo approccio consente di contenere molto l’investimento iniziale, tanto che la maggior parte degli acceleratori investe tra i 30 e i 50mila dollari per permettere a un team di passare dall’idea al test di mercato e proiettare il team verso il seed.
Questo passaggio non è affatto banale e molto dipende da come è stato selezionato il team: è molto più importante avere un buon team con un’idea sbagliata che viceversa. D’altro canto, il processo di startup consiste proprio nel mettere a punto il prodotto con un graduale processo di apprendimento. Le tecniche sono varie e anche io me ne sto occupando. Per esempio, puoi leggere questo post che parla proprio del metodo che sto mettendo a punto in queste settimane per un corso che faccio presso l’acceleratore Enlabs di Roma: nel nostro caso, l’obiettivo è far apprendere il customer development in modo efficace ed efficiente e quindi abbiamo adottato un approccio legato all’action learning.
Per passare da un’idea a un prodotto testato su un mercato ci vogliono almeno sei mesi di lavoro a tempo pieno, con il sostegno di una fitta rete di mentor e con grande disciplina: la maggior parte dei giovani aspiranti imprenditori, infatti, tende a svicolare e a rimandare il confronto con il mercato concentrandosi sullo sviluppo del prodotto come piace a loro, il che posticipa solo il momento del fallimento.
Contesto
Il secondo punto cruciale riguarda il contesto. La Silicon Valley è un enorme incubatore, in cui la densità di imprenditori e aspiranti imprenditori rende la circolazione di idee e il networking estremamente facile. Anche in un ambiente così favorevole, fioriscono gli acceleratori come Y-Combinator, TechStars, 500Startups. Si tratta dell’equivalente contemporaneo delle corporazioni medievali: promuovono il learn by doing mettendo a disposizione di giovani aspiranti imprenditori il know how e l’esperienza di un nutritissimo gruppo di mentori, che vanno da imprenditori di successo a manager di grandi aziende a esperti di dominio (questa è l’impressionante lista dei mentor di Techstars).
Il modello dell’acceleratore sta diventando sempre più popolare, perché è estremamente efficace ed efficiente e mi sembra veramente poco plausibile immaginare che si possano raggiungere obiettivi ambiziosi senza mettere in piedi un acceleratore fisico.
Ciò detto, ha senso entrare nel merito di alcuni aspetti che riguardano la creazione di una acceleratore da parte di una grande azienda.
Enfasi sulla formazione e la mentorship
Più ho a che fare con i wanna-be-startupper italiani e più mi rendo conto che la formazione è uno degli aspetti fondamentali per la riuscita del progetto. Nei primi mesi, è necessario che i team seguano un percorso molto strutturato che li porti a testare il product market fit: il confronto con la realtà deve essere continuo e spietato, perché è del tutto inutile tenere un aspirante imprenditore nella bambagia.
Inoltre, una grande azienda dovrebbe essere nella posizione di costruire una nutrita e consistente rete di mentor: non dieci o quindici, ma cinquanta o cento mettendo insieme i imprenditori e manager. Persone che possano fare da role model, mettere a disposizione le proprie relazioni, magari acquistare i servizi messi a punto dalle startup, investire come business angel.
Visione internazionale
L’Italia non è un mercato molto vivace. Perché limitare le prospettive quando l’obiettivo è attrarre talenti. Non c’è alcun motivo per cui questi non debbano venire da tutto il mondo. E, allo stesso tempo, non c’è alcun motivo per cui una startup italiana non debba rivolgersi a un mercato internazionale. Una visione internazionale è necessaria anche perché l’obiettivo dovrebbe essere allevare potenziali multinazionali tascabili. Queste aziende hanno bisogno anche di capitali stranieri e quando ci sono realtà solide i fondi esteri non hanno difficoltà a investire in Italia: basta vedere i casi di successo italiani da Yoox a Venere. Più di recente, Balderton (uno dei fondi più importanti nel mondo) ha investito in Garage, una delle startup di H-Farm: é un’iniziativa assolutamente acerba e con un nome veramente stupido (prova a trovarla!), ma l’episodio mostra l’interesse per l’Italia. D’altro canto siamo un territorio inesplorato.
Infine, le aspirazioni internazionali andrebbero sottolineate anche partecipando esplicitamente a un network internazionale come il Techstars Network.
Estensione all’interno dell’azienda
Generalmente si tende a immaginare che in una grande impresa ci siano solo pigri burocrati e passacarte. Invece, c’è tanta gente in gamba compressa da culture aziendali che hanno difficoltà a premiare il merito: magari qualcuno di loro ha voglia di mettersi in gioco e di prendersi qualche mese di aspettativa per provare a intraprendere. Sarebbe anche una bella ibridazione, soprattutto se l’acceleratore avesse una sede fisica in uno dei palazzi dell’azienda.
Tipologia dei progetti
E’ vero che tutti sognano la nuova Facebook o Google e via di seguito, ma attenzione: quelle sono aziende che in Italia non ci possiamo permettere, perché non ci sono i capitali per farle crescere alla dimensione giusta. Più che sull’ennesimo social network geolocalizzato, mi occuperei di smart b2b: c’è un mondo di PaaS e SaaS da inventare e mettere in campo. E si tratta di soluzioni che possono essere internazionalizzate abbastanza velocemente: è molto probabile che in quest’area si riesca a costruire una nuova generazione di multinazionali tascabili italiane. Penso a SoundReef che sta entrando nel mercato dei diritti musicali per fare concorrenza alla Siae e alla omologa francese (ovviamente stanno già mettendo a punto un’offerta per il digitale). Oppure a Mperience che ha un motore di correlazione semantica adottato da grandi editori. O anche a Beintoo, che fa advertising dentro le app mobile, che dopo un primo giro in Italia sta andando in America. Iubenda che standardizza la contrattualistica online e via di seguito.
Un luogo fisico
Non ho dubbi che sia necessario un luogo fisico, dove ospitare i team nei primi sei mesi di attività . Ma non può essere un brutto palazzo periferico: l’innovazione deve essere tenuta nel cuore dell’azienda e in un posto che sia anche simbolicamente bello.
Inoltre, un luogo fisico serve per creare densità , collaborazione, scambio e rende meno rischioso l’investimento nella fase pre-seed. Senza considerare che, poiché è inevitabile un certo tasso di fallimento, la coabitazione rende più semplice il recupero di chi ha perseguito l’idea sbagliata e il suo riutilizzo in altre startup: tutto know how che viene conservato e valorizzato.
Il capitale di rischio
Occorre fare attenzione a come viene impiegato il capitale di rischio. In Italia i finanziatori che operano nel digitale si contano sulle dita di una mano e sono quasi tutti concentrati nel pre-seed: si tratta di fondi microscopici, che investono poche decine di migliaia per volta, arrivano a fare un follow up con grande difficoltà e raramente superando i 300k. A fronte di questa modesta disponibilità , le richieste di equity sono esorbitanti. La scusa è che gli investimenti in Italia sono più rischiosi e mi sembra una vera idiozia: che senso ha prendersi una fetta più grande di una torta cattiva? se ne mangi di più, mica diventa più buona! Avrebbe senso un’iniziativa di standing alto si allineasse su standard europei e lavorasse in modo sistematico per coinvolgere coinvestitori per costruire dei seed più corposi e con delle valutazioni aziendali più generose. Allo stesso tempo, è importante non limitarsi al pre-seed, ma riservare una parte consistente delle risorse al seed in modo da traghettare le startup verso la profittabilità oppure verso un Round A.
Competizione e reputazione
Negli ultimi anni le occasioni per i giovani startupper si sono moltiplicate, soprattutto nel segmento pre-seed. Sono nati degli acceleratori, molte aziende regalano soldi in business plan competition, andare all’estero fa meno paura (d’altro canto alcune mete come Berlino, Amsterdam e Londra sono veramente vicine). Questo significa che è diventato molto più difficile attrarre quelli bravi. Da questo punto di vista, occorre evitare la spettacolarizzazione, gli eventi grandiosi e la retorica del futuro radioso. Queste cose non piacciono a chi si fa il culo nelle università per quattro euro al mese e che investe tempo, risorse e aspettative per partecipare a concorsi che premiano il progetto più sexy invece di quelli più meritevoli.