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Parlare di ecosistema delle startup è fuorviante

Si fa un gran parlare di ecosistema delle startup. Ieri, durante TechCrunch Italy, ne ho discusso con Alessio Jacona e Nico Perez e sono emerse due riflessioni.

La prima è che le startup italiane non hanno nulla da invidiare alle cugine straniere più famose, sia in termine di talento degli imprenditori che in termini di qualità dell’esecuzione. Di fatto si ha l’impressione di avere un gruppo di calciatori che potrebbero tranquillamente giocare in serie A e che, invece, si incontrano nel campetto della parrocchia sotto casa. Infatti, il sistema che gravita attorno alle startup è talmente striminzito che rischia di soffocare oppure espellere il meglio. I fondi di investimento sono microscopici se confrontati con quelli stranieri e hanno poche o nessuna connessione con gli investitori esteri: la gran parte delle operazioni funding che ci sono state negli ultimi mesi sono state per lo più di piccoli importi e tutte italiane. Non ci sono dubbi che se si vuole incentivare la nascita e la crescita (veloce) di aziende innovative, occorrono più soldi ed occorre importare soldi dall’estero. Altrimenti finiremo a fare solo siti di e-commerce, deal, coupon e arbitraggio di contenuti, che nel 2012 non si possono certo far rientrare nel novero delle startup hi-tech.

La seconda riflessione riguarda il termine ecosistema, che secondo me è fuorviante perché è troppo vago e favorisce divagazioni fantasiose su quali debbano essere gli elementi che lo compongono. Credo che sarebbe molto più produttivo parlare di comunità di pratica, ossia, secondo la definizione che ne da Wikipedia:

Le comunità di pratica e di apprendimento sono gruppi sociali che hanno come obiettivo finale il generare conoscenza organizzata e di qualità cui ogni individuo può avere libero accesso. In queste comunità, a cui si rivolge il progetto educativo all’interno delle istituzioni dell’educazione formale, gli individui mirano a un apprendimento continuo e hanno consapevolezza delle proprie conoscenze. Non esistono differenze di tipo gerarchico: tutti hanno uguale importanza perché il lavoro di ciascuno è di beneficio all’intera comunità.

La definizione rende bene l’idea di quello che accade in altre parti del mondo, dove imprenditori, manager e investitori di esperienza allevano in modo sistematico le nuove leve. Si tratta di una vera e propria gilda in cui le istituzioni educative all’interno delle quali si trasferiscono le conoscenze sono gli acceleratori di impresa.
Se la guardiamo da questo punto di vista, ci accorgiamo anche che gli startupper della Silicon Valley, della TechCity o della Silicon Alle hanno un grande vantaggio rispetto agli italiani: diventano esperti più velocemente. Hanno più occasioni di affinare le proprie capacità di creare network che li aiutano a far crescere la propria azienda, hanno accesso all’expertise di imprenditori e finanziatori di successo, dialogano continuamente con i propri pari, che stanno a loro volta diventando esperti.

Dovremmo decisamente abbandonare l’espressione ecosistema delle startup, che si presta a mille interpretazioni, e adottare quella più precisa e ricca di significato di comunità di pratica.

Inoltre, dovremmo incrementare il numero di iniziative di mentorship coinvolgendo un numero sempre maggiore di imprenditori con esperienza. Mi riferisco a progetti come InnovactionLab di Augusto Coppola a Roma o come il Founder Institute, che sto personalmente portando nella capitale insieme a Giuliano Iacobelli.