Siamo arrivati al termine della prima fase del Founder Institute con ottimi risultati: in queste prime quattro settimane abbiamo perso 3 founder che hanno rinunciato, mentre altri 5 sono stati messi in pausa di riflessione dopo la mentor idea review e potranno ripartire con la prossima edizione primaverile (per maggiori informazioni su come funziona il programma: http://fi.co/about).
Nel corso degli incontri, i partecipanti al programma fanno più pitch e raccolgono i feedback dai mentor. Osservando le interazioni tra startupper e imprenditori più o meno stagionati, ho individuato una serie di fattori che incidono sulla valutazione di un progetto di impresa.
Il primo è la convinzione con cui si espone il progetto, che nella maggior parte dei casi è lo specchio delle sicurezza con cui si padroneggia l’argomento. Poiché il processo di startup è un percorso di apprendimento, spesso è evidente che l’imprenditore non si sente del tutto a suo agio con l’argomento che tratta perché sa che la conoscenza che ha della sua idea è ancora troppo piccola: ci sono cose da approfondire, test da fare e verifiche da effettuare. Alcuni sono più spavaldi e riescono a maneggiare meglio la situazione, altri diventano nervosi e – a volte – fin troppo incerti.
Il secondo fattore riguarda la preparazione tecnica del pitch: meno lo si è preparato e ripetuto ossessivamente e peggiore è il risultato in termini di efficacia. Se si hanno a disposizione tre minuti, ogni singola parola deve essere messa al posto giusto ed occorre tenere bene il ritmo. E’ un risultato che si raggiunge solo se ripete molte volte, ci si riprende con una telecamera e ci si osserva, se si prova davanti a persone che sono in grado di guardarlo con occhio critico. Dare la sensazione di improvvisazione in un pitch equivale a dare una sensazione di improvvisazione generale.
Il terzo fattore riguarda l’idea in sé ed è probabilmente il più importante. Se si sta facendo un pitch di fronte a degli esperti del settore (altri imprenditori che fanno sistematicamente attività di mentorship, business angel o venture capitalist), è normale attendersi delle reazioni diverse in funzione del progetto che si vuole realizzare e del mercato in cui si intende competere. In questo contesto, alcune idee sono molto più difficili da far passare di altre.
La mia impressione è che se si sta avviando un’impresa in un settore noto, occorre presentare una performance; se invece si sta facendo una startup in un settore emergente, occorre essere convincenti nel presentare un sogno.
Un esempio personale: la startup che sto mettendo in piedi insieme con Giuliano Iacobelli produce soluzioni software per realizzare campagne di comunicazione e di marketing. Non è un settore nuovo e ci sono già una serie di attori importanti. Ovviamente, noi siamo convinti di avere un approccio originale alla soluzione del problema, ma in tutti gli incontri che ho fatto con i potenziali finanziatori, il discorso è caduto inesorabilmente sulla strategia di vendita e sui numeri. I miei interlocutori, dopo aver valutato la nostra credibilità come team e la nostra capacità di realizzare il prodotto, hanno subito spostato l’attenzione su un indicatore di performance.
Stamplay lavora in un mercato in forte crescita (quello del marketing software automation) e quindi l’atteggiamento complessivo è positivo. Invece, se l’aspirante imprenditore desidera lavorare in un mercato noto che ha mostrato di avere dei problemi strutturali come il couponing, la possibilità di vendere un sogno è pari a zero. Lo sanno bene i partecipanti al Founder Institute che sono stati messi in pausa di riflessione proprio per questo motivo, con loro grande disappunto.
Chi fa una startup in un mercato emergente, invece, può puntare a vendere il sogno. Pensate, per esempio, al successo di Atooma allo scorso TechCrunch Italy. Il mercato del context aware automation è tutto da inventare: sono anni che in campo accademico si studiano queste applicazioni, ma la tecnologia abilitante è realmente disponibile solo grazie alla diffusione degli smartphone. Non ci sono benchmark di riferimento; il punto cruciale è costruire una vision credibile e dimostrare di essere in grado di realizzare la tecnologia e il prodotto (cosa che Francesca e Gioia stanno facendo in modo piuttosto efficace). Ho lavorato su una startup del genere nel 1999: si chiamava Wikey e nasceva sulla scommessa che ci sarebbe stato un mercato per i servizi Wap. Era una vision credibile, perché molte grandi aziende di analisi prefiguravano l’esplosione del mobile internet, ma quel mercato non si è mai veramente aperto fino a quando Apple non ha introdotto l’iPhone e tutti gli altri produttori le sono andati dietro.
In conclusione, fatto salvo che per fare un pitch efficace è necessaria una buona dose di autostima e di preparazione tecnica, in questi mesi mi è apparso molto chiaro che c’è una sostanziale differenza tra vendere un sogno oppure vendere una performance.