Startup Storytelling – Parte 1 di 4

Per un imprenditore, saper creare e raccontare delle storie è un’abilità tanto importante quanto sottovalutata. Il motivo è molto semplice: come esseri umani siamo fatti di storie e le storie danno un senso alle cose che facciamo e che progettiamo di fare. Quando si avvia una nuova azienda, essere un bravo storyteller aiuta a posizionare il prodotto e a raccontarlo ai clienti, a comunicare gli obiettivi che vogliamo raggiungere come azienda e a trasferirli efficacemente agli stakeholder.

Quando parliamo di storytelling e di startup, ci sono quattro dimensioni che dobbiamo prendere in considerazione: il prodotto, la startup, l’industria, l’imprenditore. Le ho messe in ordine di ovvietà.

Product storytelling

Lo storytelling più ovvio è quello attorno al prodotto ed è rivolto ai clienti. Questa dimensione dipende dal posizionamento che avete scelto, ossia dallo spazio mentale nella testa del potenziale consumatore che avete individuato e che avete deciso di occupare. Il posizionamento è la promessa di valore che la vostra azienda crea per il cliente e determina le funzionalità che differenziano il vostro prodotto dalla concorrenza, come progettate l’esperienza d’uso, come interagite con i vostri clienti e via dicendo. Si tratta di un’attività strategica che viene prima di qualsiasi altra cosa. Su queste fondamenta costruirete tutto il resto: si tratta di una parte essenziale del percorso che trasforma un’idea di business in qualcosa che un consumatore desidera ed è disposto a pagare. Per esempio:

For World Wide Web users who enjoy books, Amazon.com is a retail bookseller that provides instant access to over 1.1 million books. Unlike traditional book retailers, Amazon.com provides a combination of extraordinary convenience, low prices, and comprehensive selection. (Growth Factors)

In questa frase è evidente qual è il beneficio che Amazon offriva (comodità, prezzo e scelta… oltre un milione di titoli) quando è stata fondata e a chi (gli utenti del Web, che all’epoca non erano così tanti come oggi). Per avere maggiori informazioni su come si colloca la strategia di posizionamento nell’ambito per processo di startup, potete leggere l’introduzione Product Market Fit Lifecycle di Carlos Espinal.

Se siete riusciti a trovare una casella nella mente del potenziale cliente, allora potete cominciare a costruire la storia del prodotto. Nel marketing, questo processo si chiama branding e consiste nel progettare e gestire quell’insieme di storie, nomi, segni, simboli ed esperienze che contribuisce a farvi entrare nella testa di un consumatore e a fare in modo che si ricordi di voi al momento giusto. Una delle cose più affascinanti della comunicazione è che si tratta sempre di un processo negoziato: si mette in comune un pezzo di informazione in un contesto che rende più o meno predicibile il risultati finale. Ma non sempre è così, come mostra questo post su dieci cose che gli americani non si rendono conto essere offensive per un inglese.

Analogamente, il risultato del processo di branding non dipende solamente da quello che progettate, perché il vostro cliente costruisce nella propria mente un’immagine del vostro brand attraverso i vari touchpoint con cui viene in contatto: il prodotto stesso, il sito web, il personale di assistenza e via di seguito. Voi state solo facendo uno sforzo per sfruttare, generare, influenzare e controllare quest’immagine e quindi aiutare il vostro business a ottenere migliori performance. Ma, non potete controllare con esattezza il risultato finale.

Sul branding c’è una letteratura infinita, generalmente scritta da consulenti per convincere le aziende che il proprio modello e il proprio set di slide preconfezionato è più efficace di quello dei concorrenti. Occorre fare attenzione perché la maggior parte di questa letteratura propone tecniche di management che si applicano molto bene alle grandi organizzazioni, ma che rischiano di essere troppo articolate per una startup. In strutture complesse e distribuite, infatti, non c’è solamente il problema di progettare il brand, ma anche di fare in modo che la sua declinazione sia omogenea e che l’esperienza che il cliente fa ogni volta che tocca l’azienda sia il più possibile coerente.

In una startup, un team di poche persone si occupa di tutto e, infatti, nella maggior parte dei casi l’immagine del prodotto si intreccia in modo inestricabile con quella dell’azienda e con quella dei fondatori. Potrei citare molti esempi, ma credo che la storia di Twitter, da questo punto di vista, sia emblematica. Nei suoi primi anni di vita, parlare di Twitter significava parlare di Jack Dorsey ed Evan Williams, che avevano una diversa visione del prodotto e anche un diverso modo di raccontarlo. Per Dorsey si trattava di un servizio per dire agli amici «what are you doing» ed è così che nacque il servizio, con persone che raccontavano ai propri amici cosa stavano facendo attraverso brevissimi aggiornamenti di 140 caratteri. Quando Williams prese il posto di CEO, cambiò il posizionamento di Twitter e sostituì «what are you doing» con «what’s happening». Nei primi anni di vita, il brand Twitter è stato fortemente influenzato dalla Dorsey e Williams: poco importava la forma dell’uccellino, acquistato per pochi dollari su un sito di crowdsourcing, il font utilizzato per il logo o i colori. Importava la capacità di Dorsey e Williams di essere portavoce del servizio e di cavalcare in modo efficace l’entusiasmo di tante star per l’uccellino azzurro: ricordate la gara tra Ashton Kutcher e CNN per il primo account a superare la soglia di un milione di follower?
Oggi, a distanza di 8 anni dalla fondazione e con oltre 3.000 dipendenti, Twitter è diventata un’organizzazione complessa, si è riposizionata ancora con un approccio molto simile a Facebook, ha ridisegnato il logo e la Intranet aziendale conterrà certamente un manuale di brand identity. Allo stesso tempo, scommetto che molti che ricordano i nomi di Dorsey e Williams non saprebbero dire che l’attuale CEO si chiama Dick Costolo.

Progettare un brand nelle condizioni di incertezza che caratterizzano una startup e con un budget che nella maggior parte dei casi si approssima allo zero rischia di essere uno sforzo che non produce un risultato utile per il successo dell’impresa. Quindi, dimenticate modelli complessi come il brand identity prism, e concentratevi solo su una cosa: la vostra startup ha bisogno di storie brevi e memorabili che spiegano perché usare il prodotto, come farlo, quali benefici otterranno i vostri clienti.

Un racconto ha cinque elementi importanti: personaggi, ambientazione, trama, conflitto e tema. Nel nostro contesto questo significa, un cliente in un determinato contesto deve raggiungere un risultato, ma ha un problema che voi potete risolvere. Gli ingredienti che mettete in questo racconto di fatto rappresentano il vostro brand. Per esempio, quando Apple lanciò il Mac a metà degli anni Ottanta, usò una serie di annunci come questo:

mac2

Il Mac era il computer «for the rest of us», per quelli intimiditi e confusi dai Pc di IBM. Questi erano gli eroi di Apple: a loro avevano messo davanti un computer per aumentare la produttività, ma questa macchina grigia con uno schermo nero pieno di caratteri verde fosforescente era difficile da usare. Era una soluzione, ma creava nuovi problemi: IBM diventava automaticamente il cattivo della storia e il lieto fine era un computer che potevi usare con un dito. Tutta la comunicazione di Apple di quegli anni si muove in questa direzione: il Mac è il principe azzurro che vi salverà dai computer cattivi di IBM. Una classica trama da favola.

Per tornare ai giorni nostri, Transferwise sta seguendo un approccio molto simile: è il principe azzurro che combatte accanto a voi contro le banche che rubano i vostri soldi.

TransferWise_Ad

Più chiaro di così? L’eroe è il cliente che vuole mandare dei soldi da un Paese all’altro e che deve combattere contro la banca cattiva che ruberà parte di questi soldi. Fortunatamente arriva il principe azzurro nelle vesti di Transferwise. Notate che questo storytelling è così intrinsecamente forte che fa passare totalmente in secondo piano il fatto che gli elementi visuali della brand identity dell’azienda sono brutti e artigianali: probabilmente il logo è stato disegnato dagli stessi fondatori usando delle clipart e il sito è stato realizzato con un tema già pronto.

I brand sportivi sono probabilmente i più bravi di tutti a costruire questo tipo di storie. Pensate a Nike con il suo «Just do it». Tre parole che racchiudono un universo: il tuo nemico è dentro di te, dipende solo da te se non riesci a raggiungere i tuoi risultati, ma noi siamo al tuo fianco. Con un paio di scarpe. Esatto, con un paio di scarpe che hanno dei poteri magici diventi un supereroe e puoi essere come loro:

Inutile dire che i poteri magici sono nella vostra testa. Vero?

[TO BE CONTINUED]