Sempre più spesso mi capita di avere a che fare con persone che hanno un rapporto a dir poco nevrotico con il proprio cellulare: lo tengono sempre a portata di mano, mandano e ricevono messaggi mentre parlano con te, non riescono a spegnere l’apparecchio neanche per qualche istante.
Ho ritrovato questa situazione in Psicopatologia del cellulare, un libro di Luciano Di Gregorio, psicologo e gruppoanalista milanese. Ne cito un lungo brano, che – nonostante la prosa un po’ pesante – descrive come il telefonino si presti a svolgere il compito di moderatore della distanza affettiva e di regolatore personale della separazione.
L’uso abituale del mezzo tecnico, per stabilire una connessione a distanza che protegga dalla separazione, sostituisce l’uso della mente e del pensiero per rappresentare l’altro. Usando il cellulare noi, ogni volta, non stiamo attribuendo nuovi significati e nuove immagini mentali all’esperienza della separazione, e non riusciamo più a restare fiduciosi aspettando un segnale, una chiamata o una manifestazione d’interesse nei nostri confronti. Anziché dei ricordi, dei pensieri che stimolino una rivisitazione della relazione affettiva, alla quale noi partecipiamo con un ruolo proprio e riconosciamo l’importanza del nostro interlocutore, noi produciamo delle immagini realtà che, spesso, proprio per l’abitudine al contatto quotidiano telefonico, davanti all’assenza vissuta come un’anomalia, si colorano di un’attendibilità maggiore di quelle reali.
La fantasia catastrofica della perdita irrimediabile è di nuovo allontanata, ma così perdiamo anche il potenziale trasformativi che l’impatto con la catastrofe cognitiva implicitamente conteneva. Ogni nuova chiamata non fa altro che alimentare di nuovo il ricorso al cellulare che, proprio per questo, è utilizzato continuamente per sostenere le nostre personali immagini realtà, ben diverse dai fatti reali, e per ridimensionare l’eccesso di realtà a vantaggio della propria immaginazione. […]
Il ricorso immediato, sistematico, al cellulare, in funzione del bisogno di colmare una mancanza, non stimola più quell’esperienza della mente che è legata al fantasticare, al ricordare, al pensare alla persona senza averla a disposizione. Anziché ricordi e più generalmente pensieri, si compiono azioni e di producono immagini e messaggi tecnici, e questo allontana sempre di più noi dall’abitudine all’uso della memoria, dal fare mente, come attività cognitive che sono strettamente connesse con l’acquisizione della capacità di produrre simboli.
I simboli sono gli strumenti necessari per acquisire la capacità di essere soli di fatto, sono alla base della capacità di tollerare la separazione e la solitudine, senza che queste provochino uno stato d’angoscia o alimentino in noi un sentimento di annientamento.
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