In questi giorni sto partecipando a VeDrò, un think tank in cui 300 persone tra i 30 e 40 anni immaginano come sarà l’Italia tra dieci anni. Personalmente ho partecipato al workshop sul rischio dal titolo “E se domani…”, coordinato da Alessandro Politi (analista strategico) e con due relazioni di Arturo Artom (imprenditore) e Simone Guerrini (Finmeccanica). Non si è infatti visto Giovanni Floris (giornalista), che avrebbe dovuto proporre il quarto intervento.
Nel corso della discussione sono emersi alcuni spunti interessanti che hanno contribuito a delimitare il problema. D’altro si tratta di un tema per me nuovo e molto stimolante dal punto di vista intellettuale. Politi ha proposto una definizione formale di rischio che mi sembra apprezzabile e accettabile:
il rischio è una discontinuità indesiderata e pericolosa nei piani e negli eventi i cui effetti negativi (es. perdita di un bene materiale o immateriale) i cui effetti che sono in linea di principio scelti, gestibili e sopportabili ed alla cui dinamica possono essere associati opportunità.
Non ci avevo mai riflettuto prima, ma questa definizione fa il paio con quella di fiducia che di fatto dice esattamente il contrario. Quindi il rischio potrebbe essere anche considerato come il contraltare della fiducia ed è interessante che in questo consesso si stia parlando del primo invece che della seconda. Probabilmente si tratta dello spirito del tempo.
Personalmente ho proposto una distinzione tra rischio reale, rischio percepito e rischio comunicato.
Il rischio reale, a mio avviso, nasce dal crescente innervamento dei network a tutti i livelli: sociale, economico, produttivo, informativo… E’ interessante notare che le reti sono uno degli elementi che caratterizzano i sistemi complessi: oggi la loro dinamica (che permea i gruppi sociali) diventa sempre più evidente. La quantità di connessioni fa si che i fenomeni emergenti si succedano con sempre maggiore frequenza e che qualsiasi organizzazione che può essere considerata come un sistema complesso passi da uno stato all’altro con una velocità mai sperimentata prima. I sistemi complessi sono vitali quando si trovano sull’orlo del caos, mentre l’ordine e il disordine rappresentano due stati che portano alla morte del sistema. Sull’orlo del caos c’è evoluzione e ovviamente c’è il rischio di scivolare verso la cristallizzazione o il caos se il sistema non riesce ad adattarsi a questa evoluzione. Insomma, il rischio reale sta nel fatto che non necessariamente i sistemi complessi sono adattativi.
Il rischio percepito ha a che fare con lo status quo: in ogni sistema ci sono soggetti che sono interessanti a mantenere il proprio status quo. Il rischio percepito può quindi non avere nulla a che fare con il rischio reale, anzi generalmente chi si trova a doversi difendere tende a non capire qual è il rischio reale che ne minaccia la sopravvivenza.
Infine il rischio comunicato: ossia quello che le élite minacciate dicono essere rischio nel tentativo di salvaguardare lo status quo oppure per promuovere i propri obiettivi. Per esempio: Bush che dichiara la presenza di armi di distruzione di massa in Iraq per promuovere la guerra di occupazione in quel paese.
La discussione ha aggiunto una distinzione tra rischio privato e rischio pubblico. I manager presenti (c’erano gli amministratori delegati per l’Italia di Coca Cola, Polo Ralph Lauren e Alcatel Lucent) hanno lamentato il fatto che la differenza tra il pubblico e il privato è che nel pubblico di fatto non esistono strumenti efficaci di rendicontazione che permettano di verificare se l’assunzione di rischio ha condotto a risultati positivi o negativi. Gli stessi dirigenti non sono i soli a dichiarare che l’Italia è un paese in cui c’è una bassa propensione al rischio: facile per tutti citare gli Stati Uniti come il paese che incoraggia il rischio di impresa e non penalizza il fallimento.
Sono stato individuati vari rischi per l’Italia nei prossimi dieci anni. Dal mio punto di vista, andando oltre quelli ovvi o che non riguardano solo ed esclusivamente l’Italia, suggerirei: il rischio di perdere la capacità di orchestrazione dei processi produttivi e il rischio di guardarsi troppo l’ombelico.
In merito al primo, è un dato di fatto che la produzione è destinata sempre di più a delocalizzarsi: allora, il problema non è tanto quello di perdere dei posti di lavoro a scarsa qualifica per trasferirli in Cina, quando la capacità di orchestrare la progettazione e la produzione di prodotti complessi. A questo proposito mi sembra molto rilevante l’esempio di Boeing, che ha delocalizzato quasi integralmente la progettazione la produzione del 787 chiedendo ai propri partner di assumersi parte del rischio derivante dal progetto, ma ha mantenuto come competenze distintive il know how sulla produzione di alcune componenti e sul coordinamento dell’intera produzione.
In merito al secondo, non posso non notare che nel corso della discussione, il tema dell’Europa è stato toccato solo molto marginalmente. Forse dovremmo abbandonare questa prospettiva localistica e cercare di capire che ruolo vogliamo avere in Europa confrontando quest’ultima con gli Stati Uniti invece dell’Italia.
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