L’estate scorsa ho passato qualche giorno a rileggere e correggere le bozze dell’ultima fatica letteraria di mio padre, un saggio sul lavoro dal titolo provocatorio: Elogio della precarietà.
La tesi di fondo del libro è che la denuncia generica della precarietà, senza distinguere tra le sue differenti forme, porta al paradosso di far tollerare forme d’impiego legali, ma a tutela ridotta o inesistente, e di far percepire come fattore di allarme sociale più il lavoro precario che il lavoro nero. Come si legge dalla nota dell’editore:
Per l’autore le relazioni sindacali debbono cambiar registro, misurandosi con la sussidiarietà, in forza della quale la dimensione nazionale debba essere ridimensionata a favore di una contrattazione sempre più legata alle realtà aziendali, e con il federalismo, in forza del quale le caratteristiche dei territori possano essere assunte a parametro per regolare prestazioni e anche retribuzioni in rapporto a obiettvi condivisi da imprenditori, lavoratori e soggetti pubblici.
Il saggio si sofferma, inoltre, sulla democrazia sindacale, che resta legata a modelli obsoleti di socializzazione delle informazioni e di formazione delle decisioni, ignorando le potenzialità della comunicazione digitale ai fini del rafforzamento della partecipazione dei lavoratori.
Si chiude, infine, con un richiamo a recuperare il valore del lavoro manifatturiero, nella convinzione dell’autore che l’economia dei servizi in tanto può svilupparsi in quanto vi sia un’economia della produzione di beni che, attraverso la ricerca e l’innovazione, sia volta a migliorare la qualità della vita.
L’ho trovato un libro utile perché affronta una serie di questioni legate al lavoro in modo molto pragmatico e non è facile perché invece questa è una materia che viene spesso trattata per stereotipi ideologici, che non portano da nessuna parte.