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Il posto fisso, tra diritti collettivi e individuali

Riporto un brano che condivido da In nessun paese di Ivan Scalfarotto sul lavoro in Italia:

Viviamo in un paese considerato tra i più protettivi del mondo dal punto di vista delle garanzie occupazionali; per contro manca completamente l’attenzione sui diritti individuali. Il posto fisso in Italia continua a essere importante quanto la mamma e la pasta con il ragù. Anche uno dei più influenti esponenti della maggioranza, il ministro dell’Economia Giulio Tremonti, nell’ottobre del 2009 ne ha cantato le lodi: «Non credo che la mobilità sia di per sé un valore. Per una struttura sociale come la nostra, il posto fisso è la base su cui costruire la famiglia. La stabilità del lavoro è alla base della stabilità sociale». L’ennesimo paradosso dell’Italia alle prese con la Grande Crisi: dal centrodestra ufficialmente liberare e liberista si sostengono tesi del genere, mentre da sinistra gente come me ritiene che il posto fisso sia un anacronismo e in alcuni casi una fregatura per gli stessi lavoratori, che in un mercato del lavoro statico e fermo perdono qualsiasi potere contrattuale nei confronti dei datori di lavoro. Da noi nessuno è incentivato a “guardarsi attorno” e a cercare un posto e un datore di lavoro migliori. Le imprese non hanno nessuno incentivo a competere tra di loro e a costruire una reputazione di luoghi di lavoro di eccellenza. Il messaggio che l’ordinamento dà a chi lavoro è sconfortante: la cosa migliore che ti possa capitare è che non ti accada nulla.
Le leggi dei maggiori paesi europei si concentrano, come gli esperti spiegano spesso, sulla difesa della persona del lavoratore anziché del posto di lavoro. Una difesa che non si traduce nel far sì che il lavoratore sia inamovibile e resti il più possibile dov’è, ma nel sostenerlo economicamente in caso di difficoltà. E soprattutto nell’agevolarlo se e quando dovesse essere costretto a cercare una nuova occupazione. In Italia si rimane interamente concentrati su una serie di forti garanzie collettive. Almeno per i fortunati che possono disporne, perché a milioni di giovani non sono riconosciuti nemmeno i diritti base che dalla rivoluzione industriale tutti diamo per scontati: malattie, ferie, maternità. In compenso, le normative antidiscriminazione sono molto meno efficaci e ficcanti che altrove, Gran Bretagna in testa. Da noi il lavoratore più debole finisce con l’abbassare la testa, con l’accettare passivamente tutto, anche l’ingiustizia. Il ricorso al giudice per far valere i diritti negati è evento rarissimo. A farne le spese, purtroppo, sono in tanti: giovani, donne (specie le madri), spiriti troppo liberi (che in altri paesi sarebbero considerati una risorsa) e, ovviamente, omosessuale e trans.