Legacy Blog

Intervista con Davide D’Atri di Soundreef

Ho incontrato Davide D’Atri in diverse occasioni pubbliche negli ultimi due anni: a prima vista sembra timido, ma quando inizia a parlare non ha timore di dire che la sua startup ha l’ambizione di fare concorrenza alla Siae e alle altre società che gestiscono le royalty sulle canzoni.

L’esperienza personale
Ho sempre lavorato nell’industria della musica. Da quando avevo 14 anni ho fatto di tutto, dal dj all’organizzazione di festival, alla vendita di cd musicali.
Credo di avere ereditato la mentalità imprenditoriale dalla mia famiglia, i miei genitori sono avvocati quindi con una vocazione da liberi professionisti. Dall’età di 15 ho sempre fatto preferito la piccola impresa ai lavoretti: da studente, vendevo macchine usate acquistate all’asta… e in qualche modo ho sempre trovato la via per crearmi il mio piccolo ecosistema.
Ma ho anche una formazione economica: mi sono laureato in Inghilterra in economia e ho preso un master in Business Economics.
Ho cominciato a lavorare per un publisher discografico subito dopo il master, ed è stato il mio primo lavoro strutturato in questa industria. Ho imparato moltissimo, e lì ho avuto l’idea per la mia prima start up, Beatpick, che oggi è un’azienda piccola ma solida. La seconda, Soundreef, è un’avventura molto più grande e molto più scalabile.

Beatpick, la prima startup
Avevo un buon lavoro e dedicavo la notte a pensare e costruire Beatpick, insieme al mio co-founder Francesco Danieli e a un programmatore trovato su Msn. Di giorno, continuavo a lavorare.
Appena lanciata, Beatpick ha cominciato a fare subito fatturato. Abbiamo pensato che potevamo lasciare il lavoro, ma è stata una scelta tragica, perché nell’arco di quattro mesi il fatturato si è azzerato e siamo rimasti in apnea per altri sei mesi senza possibilità di scampo: non eravamo scalabili, e quindi non eravamo interessanti per gli investitori. Né avevamo fondi nostri.
La maggior parte delle startup si sarebbe sciolta, ma noi abbiamo continuato a crederci, abbiamo cercato dei lavori che potessero sostenere noi e la nostra società in quel passaggio finché non abbiamo trovato un business angel italiano che ha rilevato quasi la metà dell’azienda permettendoci di continuare, seppur tra molte difficoltà.
La nostra tenacia proveniva in qualche modo dalle nostre esperienze personali, maturate fin da giovanissimi. Per certi versi eravamo pronti ad affrontare quelle difficoltà, forse neanche ne parlavamo troppo. Sapevamo che tra i 24 e i 25 anni ci sarebbe stato un momento critico della nostra crescita personale e professionale, ma poche volte abbiamo pensato di mollare, ci siamo semplicemente rimboccati le maniche, mettendoci a fare perfino direct marketing. E da lì ci siamo rialzati.
Beatpick oggi è una società adulta che fa consulenza per grandi società di comunicazione e pubblicità o brand che hanno bisogno di associare della musica a uno spot. Generalmente, le grandi agenzie o i grandi brand non fanno questo tipo di attività ma si appoggiano a un consulente musicale o a una società esterna, perché la ricerca musicale porta via tempo e il music licensing non è semplice. Noi siamo noti per lavorare molto bene con la musica indipendente e per essere un team che offre sistemi tecnologici di qualità in un settore dove l’offerta tecnologica è quasi nulla. Il nostro motore di ricerca funziona molto bene e il nostro modo di licenziare i brani è molto veloce.
Inizialmente facevamo anche troppo: ricordo i primi colloqui con Gianluca Dettori che mi diceva: «Davide, è tutto molto bello ma non si capisce cosa vuoi fare». Era vero, volevamo fare talmente tante cose che non entravano in un flyer, e questo è un consiglio che oggi mi sento di dare a chi pensa ad una startup: se hai un’idea taglia tutto il contorno e vai dritto al core, focalizzando una o due cose, non di più.

La seconda (grande) avventura. Soundreef
Soundreef nasce come spin off di Beatpick, ma oggi è del tutto indipendente. A distanza di 3-4 anni dall’avvio di Beatpick tornai su un mio vecchio pallino: quando mi affacciai al mondo dell’economia non riuscivo a comprendere come ci fossero delle fortissime distorsioni nel mondo della musica e in particolare era incomprensibile per me come potesse essere consentito alla Siae in Italia e alle sue corrispondenti in ambito europeo di agire in regime di assoluto monopolio.
Non esiste un’altra industria così grande come quella delle royalties divisa in 25/26 società in tutto il mondo, e non capivo come l’antitrust potesse consentirlo.
Approfondendo un po’ la storia mi sono accorto che negli Usa la situazione era simile fino al 1945, quando l’antitrust americano fece causa all’omologa della Siae negli States. Pur sapendo che è il nostro codice civile a dare esplicito mandato alla Siae, iniziai a girare per studi legali, interessandomi soprattutto del mercato europeo dove non credevo che questo potesse essere consentito.
Molti tra gli avvocati che incontravo non mi davano alcun credito, ma si trattava di esperti di diritto d’autore. A me serviva invece un confronto con esperti non solo di questa materia ma anche e soprattutto di antitrust.
Solo facendo parlare tra loro diversi studi internazionali riuscii a cominciare ad operare, e decisi di fondare la nostra società di collezione compensi in Inghilterra, dove il mercato è libero, con l’obiettivo di concorrere su scala europea. In questo modo, chi poteva farci causa era solo la Commissione Europea. Ma per fortuna nel 2008 la Commissione sancì con la Decisione CISAG che le società di collezione di compensi devono essere in concorrenza perché ciascun autore ha diritto ad iscriversi a quella che meglio lo rappresenta. Questo ci diede molta forza e un supporto concreto anche nell’interlocuzione coi clienti.
Da lì, continuammo facendo un lungo market test durato dall’inizio del 2008 fino alla fine del 2010, perché lavorando avevo imparato tante cose, e la più importante era che se devi andare da un fondo, da un angel o da un investor devi avere le idee chiare, un market test a disposizione e devi poter dimostrare che la tua idea sta in piedi.
Coinvolsi delle catene molto importanti: già nel 2008 presi il gruppo Interdis, il sesto gruppo italiano di supermercati, ma senza neanche fare un comunicato stampa. A novembre 2010 capii che la cosa stava in piedi, che avevo un market test valido per gli investitori e uscii con il marchio Soundreef. Oggi Soundreef, di fatto, fa concorrenza alla Siae.

Il mercato
Mi resi subito conto di stare un mercato molto grande, fatto di 10 miliardi di royalty, ma anche completamente vergine. Dal 1997 abbiamo visto l’industria della musica fare di tutto, ma nessuno ha mai lavorato alle royalty, questo settore non è mai stato toccato dall’innovazione.
Cercai di capire come operare attraverso questo lungo market test proprio perché 10 miliardi di business erano anche troppe da attaccare, e avevo bisogno di capire da dove iniziare, per poter parlare a eventuali investitori di una nicchia da cui partire per poi scalare. Scelsi il settore della musica d’ambiente, cioè la musica in diffusione nelle grandi catene della Gdo. I supermercati pagano un forfait a Siae che può arrivare fino a 600mila euro l’anno. Qualcuno è arrivato a pagare fino a 1,5 milioni di euro l’anno.
Costi così alti sono giustificati da scelte di marketing legate al profilo di questi supermercati, ma riguardano anche la gestione del personale, per il quale la musica rappresenta un elemento di supporto nello svolgimento delle mansioni.
Da un lato, mi resi conto di poter offrire un servizio migliore e meno costoso di quello di Siae, e dall’altro capii che in Italia si trattava di un mercato di 200-250 clienti, e quindi della prospettiva – praticabile – di andare a parlare con altrettanti direttori marketing.
Dall’altra parte, verificai che autori, editori ed etichette vivono in una condizione di totale oscurità: bene che vada, la Siae gli manda un assegno a fine anno senza informarli di nulla, non dividendo le royalty secondo quello che è stato effettivamente suonato, ma secondo criteri decisi dal suo CdA. Avevo in mano, quindi, un servizio trasparente ed efficiente per autori ed etichette e più conveniente per i clienti.
Nella nostra attività, la parte relativa alla musica è stata semplice perché veniamo dal settore e conosciamo molte persone. Lavoriamo principalmente con editori ed etichette medio-grandi, e quando siamo andati a trovare alcuni tra i maggiori ci hanno detto: «abbiamo fatto le regole insieme a Siae ma siamo stufi di una situazione di immobilismo totale». In qualche modo, quindi, abbiamo colto un bisogno.
Tecnicamente, all’autore, editore o etichetta diamo un account attraverso il quale possono vedere dove sta suonando la loro musica su Google maps, quanto stanno guadagnando in termini di royalty e quando verranno pagati.
Al cliente offriamo un risparmio fino al 50%, mettendogli a disposizione praticamente tutto il palinsesto radio, dandogli consulenza ed effettuando selezione della musica ad hoc, tutti servizi mai resi da Siae.
Oggi, solo con la musica d’ambiente, il valore del mercato in Italia è di 70 milioni di euro e di 1,300 miliardi in Europa: noi puntiamo realisticamente a raccogliere il 5-6% del mercato. Siamo partiti dalla musica d’ambiente ma il secondo livello sarà internet, dove la giungla è ancora più intricata e non esistono infrastrutture che se ne occupino.

Il fundraising
La strategia di restare low profile per un anno e mezzo, non raccontare cosa stavamo facendo, non farci pubblicità e lavorare per acquisire fatturato e clienti in silenzio ha pagato moltissimo.
In questo periodo, non ho praticamente mai cercato un investor e sono stato molto raramente ad eventi e pitching. Ho cercato di essere “prezioso” per vedere se la voce girava tra gli investitori e se qualcuno mi avrebbe cercato spontaneamente, anche se a volte mi sono fatto introdurre.
Ho ottenuto un seed da 85mila euro da parte di LVenture di Luigi Capello con una trattativa rapidissima, di pochi mesi. Dopodiché, mi servivano circa 100mila euro per coprire altri 6 mesi da dedicare all’acquisizione clienti. Ho rischiato molto, tra giugno e luglio stavamo per finire i soldi, ma avevamo l’obiettivo di andare a fare un round più importante con una solidità di fondo, facendo vedere che c’era crescita e clienti importanti. Ho preso 100mila euro e abbiamo fatto altri 6 mesi, poi è avvenuto tutto molto rapidamente.
Nell’arco di un mese ho fatto riunioni one to one con IAG, 360Capital, Piemontech, Quantica e con una famiglia di industriali che a sorpresa si era interessata al business. A distanza di pochissimo, avevamo già due offerte concrete.
Non ho messo in competizione queste persone dal punto di vista della valutazione e dell’investimento, restando sempre molto chiaro con tutti: non mi interessava in assoluto l’importo del finanziamento ma come avremmo potuto lavorare insieme, e quanto velocemente avremmo potuto chiudere, e questo approccio è stato apprezzato.
Devo dire che ho avuto un’ottima impressione di tutti i miei interlocutori, e ho riscontrato in loro disponibilità, trasparenza ed efficacia. Ho sempre imparato molto anche dai no che ho ricevuto, compreso quello di Gianluca Dettori, che disse no a Beatpick. Ma lo fece con molto stile, dandomi buoni consigli e supporto pratico.
Oggi, I soci sono LVenture con una piccola quota, io con una quota di maggioranza, Gabriele Valli, il business angel che acquistò Beatpick, Francesco Danieli che ne era il cofounder e questa famiglia di industriali che sta cominciando ad avere una quota importante e forse ne avrà una ancora più importante nel 2012.
C’è stata moltissima rapidità di azione, anche rispetto all’offerta concorrente, in cui la richiesta di esclusiva in due diligence per un paio di mesi non era pensata per verificare la fondatezza del progetto, ma per capire la presenza di un reale interesse.
Io credevo che questa verifica andasse fatta prima, anche perché per noi non sarebbe stato semplice dopo un periodo di esclusiva, nel caso le cose non fossero andate a buon fine, tornare da altri interlocutori: il minimo che poteva accadere è che gli altri offrissero condizioni peggiori di quelle che era possibile contrattare prima.
Dall’altra parte c’era questa famiglia che diceva di aver bisogno di due o tre settimane per una diligence dal punto di vista tecnico-legale. In due tre settimane avevamo trovato l’accordo, solo rifinendolo in alcuni aspetti nelle settimane successive.
Ho apprezzato anche il fatto che non mi abbiano fatto pagare la due diligence, che tutti gli altri proponevano di scalare dal valore determinato nell’accordo.

Il team
Confermo che è difficile trovare personale tecnico disposto a lavorare in una startup. Noi volevamo ottimi professionisti, pagati bene e con condizioni di lavoro ottimali.
Sembra esserci un grande divario: c’è chi vuole lavorare nelle startup ma ha poca esperienza non solo tecnica, ma anche professionale e umana, e poi c’è l’ottimo professionista che ambisce a Microsoft o Oracle ma non è interessato alla startup. I vantaggi, percepiti come tali in Inghilterra o negli Usa, di lavorare in un contesto stimolante come quello di una startup, in Italia sembrano essere visti come svantaggi.
Noi abbiamo preso un programmatore croato bravissimo che è un giramondo, e un marchigiano strappato ad un’altra startup.
Per la selezione, facciamo prima un colloquio conoscitivo in cui io verifico alcune condizioni minime per lavorare insieme e poi un colloquio tecnico orale e un test pratico, in cui facciamo risolvere quattro bug del sistema, più una piccola prova teorica.
Anche per altre posizioni abbiamo riscontrato delle complessità: per la figura di social communication coordinator abbiamo scelto una ragazza americana su 400 curricula ricevuti, tra i quali abbiamo avuto serie difficoltà a restringere la selezione. Oggi siamo complessivamente in 10-11.
In ogni caso, la prima cosa che mi spinge a scegliere una persona è trovare una grandissima passione e voglia di lavorare con noi. La seconda è la voglia di lavorare in team, crescere insieme ed essere molto proattivi. E poi umiltà, educazione e precisione.
Passare da 2-3 persone ad un team più complesso è difficilissimo, forse la cosa più difficile da sostenere per un founder o Ceo.
E’ complesso assumere, gestire, organizzare e relazionarsi, essere duri o comprensivi al momento giusto senza fare errori. Si impara esclusivamente dalla propria esperienza. Bisognerebbe parlarne di più e in termini più pratici, anche perché da founder dover gestire alcune dinamiche può togliere energia alla parte creativa. Io ho scelto di affidare il micromanagement a una persona, proprio per avere più tempo e la mente libera da dedicare alla vision e agli aspetti più strategici.

Il futuro
Soundreef almeno per altri 5 anni. Poi si vedrà.

Parlare di salute mentale, serenamente

Vi segnalo un progetto molto interessante: Serenamente, il magazine di psicologia che vuole rendere la salute mentale accessibile a tutti. Sul sito leggo che l’obiettivo