Intervista con Fabrizio Capobianco di Funambol

Fabrizio Capobianco è fondatore di Funambol, società nata in Italia e trasferitasi nella Silicon Valley dove è cresciuta globalmente e ha compiuto con successo diversi round di finanziamento per oltre 30 milioni di dollari.
Fabrizio ormai è emigrato in pianta stabile negli Stati Uniti e ha racconto in diverse occasioni la sua avventura e la sua visione imprenditoriale. Per esempio, nel 2009 in un’intervista con Mario Palombi (video) e nel 2011 intervenendo alla tappa fiorentina di Telecom Italia (video).
Nella chiacchierata che abbiamo fatto la settimana scorsa, sono voluto entrare un po’ più nel dettaglio dell’esperienza da imprenditore:

L’esperienza da imprenditore
Funambol è la mia terza azienda: io sono quello che in America definiscono un imprenditore seriale. Agli inizi, la scelta più importante è stata quella dei soci. I co-fondatori sono fondamentali, e con le prime due aziende, come spesso accade, ho sbagliato.
Dopo quelle esperienze mi sono ripromesso di fare impresa con persone che conoscevo da almeno 10 anni, per cercare di non avere sorprese.
Con Funambol è andata così, e oggi, a distanza di 10 anni da quando abbiamo iniziato a parlare del progetto, se ho un problema le prime persone con cui parlo sono i miei soci. E’ significativo, perché siamo partiti da una cantina e siamo arrivati a raccogliere oltre 30 milioni di investimenti, ne abbiamo passate tante insieme.
Prima ancora dell’esperienze aziendale, la scelta dei soci è la prima forma di costruzione di un team ed è cruciale: anche oggi che abbiamo un Ceo e Funambol è una realtà strutturata, la cultura è rimasta la stessa di quando eravamo in tre.

Scegliere i soci
Ho trovato persone che la pensavano come me, che avevano lo stesso obiettivo, e questo è l’elemento essenziale.
Le cose sono andate diversamente con la mia prima azienda, in cui il mio socio era un ricercatore universitario che puntava a fare un’azienda piccola e mantenerla in quella dimensione. Ma a un anno dalla costituzione, era diventata la prima webcompany italiana. Io volevo farla scalare, lui no. Nonostante sia una persona eccezionale da cui ho imparato moltissimo, avevamo visioni completamente diverse che non ci hanno permesso di andare avanti insieme.
Anche la seconda esperienza ha avuto la stessa evoluzione, perché una volta che si è arrivati ad un buon punto e si ha successo, bisogna essere un po’ folli per rischiare e decidere di scalare, e non è detto che tutti siano pronti.
Devi trovare gente che abbia la tua stessa idea di cambiare il mondo con la sua impresa, di farla crescere. E se cresce, correre i rischi che si corrono scalando, o vendendo.
Un altro elemento importante è cercare di trovare un co-founder che sia complementare.
Sul versante tecnico, io ho trovato Stefano Fornari che è il software designer migliore che io abbia mai incontrato. Ero stato il suo tutor durante l’università e l’ho assunto come primo developer della mia seconda azienda.
L’altro aspetto che mancava era la componente finanziaria, perché io non sapevo fare business plan o bilanci e ho scelto Alberto Onetti che è competente di economia e che conosco da quando avevamo 17 anni.
Ci sono stati alti e bassi, ma in fondo è come un matrimonio: le probabilità di sbagliare quando si fa qualcosa con qualcuno che si conosce da molto tempo sono sicuramente ridotte.

Superare le difficoltà
Abbiamo avuto diversi momenti duri. Fare startup significa vivere 363 giorni di panico e 2 di entusiasmo. Ma se non è così, vuol dire che non si sta lavorando come si dovrebbe.
Il primo momento difficile è arrivato quando stavamo per prendere i primi soldi da un investitore che fece un’offerta superiore a quella che avevamo previsto. Io dissi di no, pensando che mi avrebbe dato ragione, e invece rinunciò.
E’ stato difficile, poi abbiamo ottenuti i primi 5 milioni. Ma anche allora, l’entusiasmo è durato qualche settimana, poi è stato di nuovo panico: gli investitori con il fiato sul collo, e gli occhi di tutti addosso. Dovevamo costruire un team, farlo in fretta e cercare di non fare errori.
La pressione è fortissima in quei momenti, perché se si sbaglia, si distrugge l’azienda: le prime assunzioni sono quelle chiave.
Poi la tensione si allenta una volta che il team è formato, arrivano la clientela e le revenues.
Ci sono stati altri momenti complessi, in cui da imprenditore si diventa manager: l’azienda è cresciuta e si deve pensare alle persone che ci lavorano e alle loro famiglie, che in qualche modo dipendono dal benessere della tua compagnia.
Quando ti rendi conto che c’è crescita e la tua realtà sta in piedi, il panico diminuisce.

Costruire il team
Per le primissime assunzioni che ho fatto, ho scelto persone che conoscevo già, con cui avevo già lavorato.
Il momento chiave da questo punto di vista è stato quando sono arrivati i primi 5 milioni: una scelta centrale era sul product manager, che volevo fosse in Silicon Valley, dove erano il marketing e la strategia, e che doveva essere un ponte con l’Italia. Scelsi una persona con capacità straordinarie che nel giro di 6 mesi però si fece odiare da tutti, e dovetti licenziarla, nonostante avesse un’eccellente visione strategica. Il successivo, che è ancora con noi, è stata una scelta ottimale: è una persona che ama l’Italia, la conosce e ha la mentalità giusta.
In generale, si va per tentativi: il bello della Silicon Valley è che se c’è qualcuno che non è adatto lo si può licenziare dalla mattina alla sera, e non è che ci rimanga male.
Tra le assunzioni che ho fatto, alcune sono state azzeccate e per altre, anche facendo interviste e colloqui ripetuti, non ho preso la decisione giusta, sbagliando a volte perfino nel cercare competenze in eccesso.
Si riesce a scegliere bene al primo colpo solo con persone che si conoscono. Ma se si parte giovani non si hanno abbastanza conoscenze e ci si deve fidare di chi si ha intorno, del venture capitalist, o del recruiter sul quale si investono anche cifre importanti. E se si sbaglia si rischia molto: per una startup sbagliare il vp sales, il vp business development, il vp mktg, il vp product management fa perdere anche un anno.

Avere degli advisor
Quando sono arrivato in Silicon Valley non sapevo nulla, e mi sono attaccato a tutti quelli veramente competenti che incontravo, da cui poter imparare. Uno dei problemi più grossi che incontra un Ceo è di essere completamente isolato, e nonostante questo, dover rimanere sempre positivo, soprattutto di fronte al suo team. Ma a volte può aver bisogno di parlare con qualcuno e poter dire che le cose non vanno bene, qualcuno che abbia esperienza alle spalle e un punto di vista esterno.
Per questo gli advisor sono fondamentali. Nel board di Funambol ce ne sono 5 o 6 ufficiali: i nomi di alcuni, tra l’altro, producono anche un effetto di marketing. Oltre a questi, ne ho altri più specializzati, sull’open source e sul mobile, per esempio. E uno che chiamo quando sono disperato.
Un advisor mette a disposizione la sua esperienza, ma anche la sua rete di contatti, e ti aiuta a creare relazioni.

Essere advisor
Il compito più importante, specie all’inizio, è quello di redarguire. Quando tutti dicono a uno startupper che è bravo, ha bisogno di qualcuno che gli faccia presente che può e deve ancora fare delle cose in modo diverso, in America si chiama reality check. Un advisor è qualcuno che ti dice in faccia quello che sai ma che non vuoi sentire.
Da startupper, quelli che ho apprezzato di più sono stati i più attenti nel segnalare errori, eventuali problemi o ostacoli. Credo sia determinante questo tipo di atteggiamento, perché spesso il successo iniziale può rendere meno lucidi. Invece è importante tenere presenti gli obiettivi fissati in termini di metriche, revenue, business in generale.
Di solito, io faccio l’advisor o investo in aziende in cui ho affinità con il Ceo e tutti i Ceo delle startup in cui ho investito, Mashape e Mopapp, sono persone che ascoltano.
Mashape, per esempio, sta andando molto bene, ma uno dei suggerimenti che dò più spesso ad Augusto è di cercare di andare piano, perché una volta che si hanno dei soldi si ha la tentazione di spenderli in fretta, e molti consigliano di farlo.
Mashape ha ottenuto investimenti di altissimo livello e ha validato il software italiano riuscendo a portarlo in America. Ma io credo comunque che il tempo di crescita non vada troppo compresso.
In generale, credo sia un momento entusiasmante per le startup italiane, il 2011 è stato un anno fortunato, nonostante il paese faccia fatica.

Startup e vita privata
Bisognerebbe chiedere a mia moglie! Il problema non è mai stato che non fossi a casa, quanto il fatto di essere presente fisicamente e mentalmente. Fino a qualche tempo fa, lavoravo 24 ore al giorno, anche mentre mangiavo o parlavo con mia figlia pensavo all’azienda, non riuscivo a staccare. Con gli anni, ho capito l’importanza di vivere pienamente il tempo libero.
Negli Stati Uniti si lavora per un’azienda anche per 3 anni di seguito e poi si fanno 6 mesi di vacanza. Credo sia sbagliato e nella mia azienda ho forzato le persone a prendere 4 settimane di ferie all’anno, una settimana ogni 3 mesi.
Non si tratta del numero di ore in cui si lavora, ma della capacità di staccare davvero, completamente, e capire che quando si ritorna l’azienda è ancora lì.
Ci ho messo anni per impararlo, e anche se mia moglie non sarebbe d’accordo, penso di essere davvero migliorato.

2 Responses

  1. Bella intervista e soprattutto molto vera.
    Faro’ sicuramente tesoro dei consigli e delle esperienze raccontate.
    In bocca al lupo a tutti 😉