Intervista con Max Ciccotosto di Wishpot

Mi sono imbattuto nel nome di Max Ciccotosto sogliando la lista delle startup partecipate da H-Farm: mi incuriosiva il fatto che fosse un business nato fuori dall’Italia e che non fosse stato incubato nella fattoria trevigiana.

Dall’Italia all’America (e a Microsoft)
Sono arrivato per la prima volta negli USA come exchange student presso l’università di Washington, che è l’università più importante di Seattle. Stavo studiando a Bologna e avevo già alle spalle un Erasmus di un anno a Lisbona.
Avevo l’obiettivo di fare la tesi negli States nel campo delle telecomunicazioni, e tra i vari programmi dell’Università di Bologna era inclusa la possibilità di completare il percorso all’università di Washington. Così ho passato un anno qui per poi tornare in Italia e laurearmi. Durante questo periodo il professore che mi aveva seguito a Seattle mi ha suggerito di completare un percorso di master in America, così ho ricevuto una borsa di studio di 3 mesi e alla conclusione del master, Microsoft mi ha assunto “in campus”. Sono rimasto in azienda per quasi sette anni, fino alla fine del 2006.
E’ stata un’esperienza fantastica, perché ho avuto la fortuna di lavorare su un prodotto nuovo, Exchange Server, che all’epoca era il numero due del mercato con 400 milioni di dollari l’anno di revenue. Quando sono andato via era il primo del mercato mondiale, ed era vicino all’1.8 miliardi di revenue.
Da questa esperienza ho imparato molto: da un lato tutta la parte di user experience e dall’altro il versante enterprise in cui mi sono formato occupandomi di tanti aspetti diversi di un software usato da 150 milioni di persone e che quindi aveva dietro di sé problematiche diverse e interessanti. Affrontandole, ho imparato il metodo per lavorare ad un software e svilupparlo, come funzionano progetti così grandi e come si gestiscono team di centinaia di persone.
In Microsoft ho sempre lavorato nel program management. Tutti i team che lavorano a prodotti sono strutturati in ulteriori team dedicati alle diverse funzionalità. Ognuno di questi core teams, è composto da un program manager, un team di sviluppatori e uno di tester. Io sono partito da program manager di una di queste aree di sviluppo e poi sono salito di livello fino a diventare lead program manager e senior lead program manager, e sono andato via con quel livello.
Rivestendo questi ruoli, mi sono sempre occupato di pianificazione, evangelizzazione del prodotto, contatti con i clienti. Tradizionalmente, il program manager è la persona che sta al centro di tutti le attività di comunicazione del prodotto.

Il passaggio all’imprenditorialità
C’erano motivazioni professionali e personali: dopo oltre 6 anni in Microsoft avevo ottenuto la green card, e in azienda stavamo per finire Exchange Server 2007 e ci trovavamo quindi in una fase di maturità del progetto. Microsoft d’altro canto stava cambiando molto e mi sembrava il momento giusto, raggiunta una certa indipendenza personale e fininziaria, di assumermi il rischio e cercare nuove opportunità.

L’idea di Wishpot e la sua evoluzione
L’idea di Wishpot è nata dall’esigenza personale, quotidiana, di avere un servizio che mi permettesse di salvarmi tutte le cose che volevo in qualsiasi momento e da qualsiasi posto, e che funzionasse in modo intelligente. Questo è stato il pain che ci ha fatto partire.
Ho coinvolto un altro ragazzo italiano che aveva lavorato in Microsoft e che era già andato via e in quel periodo faceva consulenza. Insieme abbiamo fatto un po’ di brainstorming, un product type e siamo partiti con l’idea di Wishspot. Eravamo una delle prime tre società a proporre il social shopping, ma era qualcosa che volevamo a livello personale, al netto di un’analisi di mercato più approfondita. Abbiamo realizzato un prototipo e lo abbiamo presentato ad un centinaio di persone, raccogliendo feedback positivi. Da quel momento abbiamo avviato lo sviluppo del prodotto. Forse avremmo potuto vagliare anche idee diverse, nate da un approccio più analitico. Per il futuro mi muoverei così.
Poi abbiamo trovato degli advisor e a distanza di pochi mesi abbiamo avuto un seed-round di 200mila dollari da investor locali. Abbiamo lavorato all’idea e dopo circa un anno abbiamo raccolto 1 milione e iniziato il contatto con H-Farm, introdotti da un’altra startup del gruppo. Abbiamo incontrato Riccardo Donadon e Maurizio Rossi durante una nostra visita in Europa, H-Farm ha deciso di partecipare all’A Round come investitore e da quel momento è nata la relazione.
L’idea iniziale era semplicemente quella della wishlist, ma poi si è evoluta per diventare la realizzazione di un servizio intelligente che informasse, per esempio, sul momento in cui i prezzi dei prodotti si abbassano o che inviasse raccomandazioni in corrispondenza di date o eventi particolari, o che potesse dare visibilità di ciò che è nella lista di una persona ai suoi amici e a questi la possibilità di commentare.
Il punto di partenza era quindi l’esperienza personale, ma poi abbiamo cominciato a pensare a cosa poteva succedere aggregando tutte queste esperienze personali, con l’obiettivo di arrivare ad un concetto di filtraggio sociale dei prodotti disponibili. Da lì ha preso forma il concetto di social shopping come metodo per selezionare prodotti interessanti in base a quello che altre persone scelgono, votano o commentano.
Questo perchè dal punto di vista business, se fosse stata solo una wishlist non sarebbe stata tanto interessante, quindi sia per attrarre l’interesse degli investors, sia per avere un mercato più consistente, abbiamo dovuto lavorare sull’espansione del concetto di base.

Le risorse finanziarie e lo sviluppo del progetto
Quando siamo partiti, l’idea di fare una startup in bootstrapping era piuttosto secondaria. Si pensava che per fare un servizio consumer che cresce fosse necessario avere dei soldi dall’esterno. D’altra parte, il nostro servizio è gratuito e il solo modo per monetizzare sarebbe stato l’advertising, che però richiede un certo volume di traffico. Fare un servizio consumer in bootstrapping è quasi impossibile: fare crescere una base consumatori costa tanto, e con revenue basse è impossibile farlo funzionare. Per questo abbiamo scelto il path standard nel gestire il percorso finanziario.
Venpop, che è un servizio per le aziende, invece, è quasi interamente bootstrapped. Con l’utilizzo appropriato di risorse siamo riusciti a farlo crescere senza il supporto di investimenti addizionali.
Oggi Wishpot fa 1 milione di unique visitors al mese e oltre 300mila utenti registrati, con una crescita in quest’anno del 250%. Abbiamo piani interessanti perchè abbiamo creato la piattaforma per il b2b, ma il nostro reale focus oggi è su Venpop, che è l’altro brand della nostra azienda.

Venpop
Venpop è una piattaforma che permette ai commercianti che vendono su Internet di vendere i loro prodotti e il loro merchandising sui diversi social network in cui i negozianti hanno una presenza. In Italia, per esempio, il brand Freddy è un nostro cliente.
Su Facebook Freddy ha uno shop, una pagina speciale dedicata ai prodotti del programma tv Amici e una volta al giorno un prodotto delle loro collezioni viene messo in evidenza.
Tutte queste funzionalità sono automatizzate attraverso la nostra piattaforma, che prende i prodotti dal loro catalogo, applica una serie di algoritmi e poi spara i prodotti nelle diverse tabs di Facebook in base a diversi parametri che il brand ha stabilito. Possiamo fare la stessa cosa su Twitter e sui cellulari e abbiamo delle API, quindi i brand possono esporre delle API customizzate per i loro partners o i loro programmatori.

Le partnership di Wishpot
In Italia siamo in partnership con Condé Nast ed è una strategia che stiamo mettendo in atto in diversi paesi per crescere sul piano internazionale, anche in Germania, Spagna, Sud Africa perché è un modo per noi per espandere il mercato senza costi di partenza eccessivi. La piattaforma è sempre gestita da noi, ma dal punto di vista del marketing editoriale la gestione è del partner locale.

La gestione del team
Grazie alla mia precedente esperienza professionale, la gestione e l’inserimento delle persone non è mai stato un problema. La cosa più interessante è stato imparare a prendere decisioni quando si è in pochi e non ci sono processi strutturati né gerarchie.
Quando si parte in una startup può accadere che si trovi con poche persone tutte allo stesso livello di seniority per il proprio settore ma senza un’esperienza trasversale tale da coprire tutte le skills necessarie. In queste situazioni, anche cose banali diventano piuttosto delicate. Questa transizione da big company a piccola azienda nella gestione del decision-making è stata una parte piuttosto critica e alla fine il modello che abbiamo adottato è quasi quello delle grandi società: ogni problema ha un owner ed è lui a prendere la decisione finale e ad assumersene la responsabilità, perchè abbiamo capito che non potevamo impiegare troppo tempo nelle negoziazioni e abbiamo preferito affidarci all’expertise di ognuno nel proprio campo.
Adesso siamo in 12, e arriviamo a 15-20 con altri collaboratori. Un livello in cui è già necessario capire come strutturare al meglio i gruppi per funzionalità in modo da lavorare bene, identificare eventuali problemi e fare gli aggiustamenti necessari. In questo senso, è stato importante trovare le persone giuste cui delegare intere sezioni funzionali. Attualmente seguo personalmente parte delle attività di marketing e tutto il business development, ma per il resto abbiamo creato team dedicati.

Il ruolo degli investitori
Ho ottime relazioni con tutti. Pragmaticamente, non tutti contribuiscono allo stesso modo. Se un investor ha partecipato con un gettone di piccola portata non entra nella gestione, e viene solo aggiornato periodicamente.
Nel caso in cui si tratti di un investitore più importante, magari un imprenditore a sua volta, la presenza è più forte e funziona anche da advisor anche se non interviene giornalmente. Può però sostenere la startup con delle intro, per esempio, e rappresenta di fatto una risorsa per il business, nei limiti dei suoi impegni. Poi c’è un’ulteriore livello, quello di grandi società che hanno investito di più, come nel nostro caso H-Farm, e che avendo un interesse più consistente sono operativamente più integrate: magari come parte del board, supportano le introduzioni, o fanno controllo sul reporting. Il modello è più di tipo partnership, in un dialogo settimanale.
Conosco questo tipo di presenza perché ho fatto parte del board di Zooppa, e ne sono stato advisor, seguendo il prodotto e proponendo problemi, scelte di priorità strategica, roadmap delle feature,. e come persona di fiducia di H-Farm sugli aspetti più operativi. Oggi Zooppa ha l’headquarter a Seattle, con un ufficio di 10-20 persone, stanno diventando molto americani e io stesso li ho sostenuti nello spostamento dall’Italia agli States.

Dal mercato consumer al b2b
Cambia molto il metodo di acquisizione di clienti. Noi vendiamo a società grandi, con processi di tipo enterprise (reti di rivenditori, partners, case studies, whitepaper), ma anche a realtà di piccole dimensioni, per le quali aiuta molto il background maturato nel mercato consumer.
In entrambi i casi, serve che le persone dedicate abbiano alle spalle percorsi diversi e conoscano i diversi approcci agli ambienti con cui entrano in contatto.

Tra vita privata e lavoro
Fare una startup e poi sposarsi e avere un bambino non è la combinazione ideale. Non aiuta da questo punto di vista lavorare tanto con Europa o Asia in cui ci sono fusi orari molto ampi, che dal punto di vista dell’impegno possono essere un vantaggio, ma anche uno svantaggio. In generale, se si è il Ceo o il founder di un’azienda ci sono responsabilità cui non ci si può sottrarre. Il 15 si pagano gli stipendi e se non ci sono i soldi in banca bisogna trovarli.
La nostra fortuna, comunque, è che lavoriamo in un settore abbastanza flexible. Io arrivo in ufficio alle 8.30 alle 17 vado via. Dalle 17 alle 20 è family time e la sera dopo che la mia bambina va a letto mi metto al laptop ma sto vicino a mia moglie. Lei di solito si addormenta prima di me e io resto a lavorare fino a mezzanotte, più o meno.

Startupper per sempre?
Personalmente, ho verificato che ogni 3-5 anni ho bisogno di fare qualcosa di diverso, che abbia clienti diversi e tecnologie nuove, indipendentemente dal fatto che il contesto sia una startup o una big company. Li considero come dei minichapter della mia vita, è successo anche in Microsoft e con Wishpot e Venpop, 3 anni sona un milestone ragionevole per ogni capitolo della mia vita professionale.

Ps. Purtroppo la qualità della connessione non ha permesso di registrare anche il video, per cui nella clip c’è sempre il mio brutto faccione 🙁