Un paio di appunti su sindacato e piccole e medie imprese

Dario Di Vico, nel suo recente Piccoli. La pancia del Paese sintetizza bene quello che penso anche io del sindacato italiano oggi. Riporto il brano:

E’ del tutto evidente come il sindacato non abbia compreso la «svolta dei Piccoli», non abbia realizzato come il protagonismo delle piccole e medie imprese sollecitasse comportamenti nuovi. Tranne qualche sincadato di categoria, e segnatamente i tessili della Cgil guidati da Valeria Fedeli (ha avuto un ruolo importante nella definizione di nuove norme per il made in Italy), le confederazioni non hanno ancora compreso appieno cosa voglia dire la destrutturazione della grande impresa. Faticano a darsi un nuovo alfabeto, a ragionare in termini di reti e di filiere produttive, sono rimaste a tutt’oggi «organizzazioni delle cattedrali» (NdA. per cattedrali, Di Vico intende le grandi fabbriche metalmeccaniche e siderurgiche). Eppure, avevano a disposizione una miniera da cui estrarre nuove soluzioni: i distretti. Un episodio recente lo dimostra: l’11 novembre 2009, giorno di San Martino e festa dedicata ai cappottari, a Martina Franca, in provincia di Taranto, al comizio in piazza organizzato dopo lo sciopero dei sindacati tessili, hanno partecipato anche numerosi imprenditori terzisti della zona, preoccupati per il dilagare della contraffazione delle merci. Di fronte a un gesto così significativo un Giuseppe Di Vittorio dei tempi moderni avrebbe inventato sicuramente qualcosa, avrebbe costruito i presupposti di una larga alleanza.
Se la scienza economica (da Giacomo Becattini in poi) e, in qualche caso, anche la politica si sono sforzate di ragionare sull’evoluzione di quella che appare una particolarità italiana, non è invece mai nato un modello di relazioni industriali distrettuali innovativo rispetto alle grandi tradizioni metalmeccanica e chimica nate a Mirafiori, Cornigliano, Arese, alla Montedison. Se fosse nato e avesse espresso un ceto dirigente legato al mondo della piccola dimensione, probabilmente avremmo avuto una dirigenza sindacale espressione della cultura delle Pmi. Invece, non esiste nemmeno un coordinamento interconfederale dei distretti e la pur ricca pubblicistica sindacale non offre materiali di riflessione in materia. Se queste condizioni si fossero verificate, Cgil-Cisl-Uil non avrebbero subito il contropiede leghista, che ha saputo costruire una continuità immediata tra condizione operaia e comunità locale, ha ricordato alle tute blu che prima esiste la loro identità territoriale e poi vengono gli altri riferimenti politici-ideologici. I simboli della vita di tutti i giorni, il vino e il salame, prima della manifestazione e del corteo, e in questa competizione il sindacato si è trovato scoperto, incapace di proporre nient’altro che cartoline ingiallite.
Del resto, ciò che ha caratterizzato la conduzione del sindacato, soprattutto negli anni segnati dalla segreteria Epifani in Cgil, è il patto di Faust. Il sindacato si è fatto promotore di servizi, dal patronato alla compilazione della dichiarazione dei redditi, ha difeso la sua forza organizzata, il numero ingente dei suoi funzionari e per questa via ha ceduto l’anima. Ha barattato la conservazione dei privilegi e delle casse con la primogenitura della rappresentanza dei lavoratori: per tenere insieme organizzazione e movimento avrebbe potuto scegliere di rinnovare ogni anno l’adesione, per tenere sempre sul filo le strutture e ogni dodici mesi verificare il proprio feeling con la base, ma ha preferito coltivare la rendita di posizione, come ha spietatamente messo in luce la requisitoria di Stefano Livadiotti, il libro sul sindacato-casta che tutti i dirigenti di Cgil-Csil-Uil hanno letto, ma che nessuno di loro confessa di aver comprato.