L’ecosistema delle startup digitali: una roadmap 2/2

In questa seconda parte, proverò a descrivere cinque ingredienti che stanno alla base di un ecosistema di startup. Si tratta di: competenze, comunità di pratica, luoghi simbolici, apertura e diversità, capitali. In quest’ordine!

Competenze
Le startup innovative hanno bisogno di competenze e quindi non possono nascere lontano dalle università o da altre istituzioni che producono queste competenze. Le startup digitali, in particolare, necessitano di software designer, sistemisti, esperti di user experience, comunicatori e esperti di social media, sociologi, psicologi cognitivi e qualcuno che ne capisca di economia aziendale, partita doppia e cose di questo genere.
Accanto alle competenze tecniche, si colloca il saper fare impresa. In questo ambito, rientra la conoscenza degli strumenti di governo del processo di startup come il business model canvas e il customer development, che sono di fondamentale importanza per i neo imprenditori perché aiutano a tenere la barra dritta sugli obiettivi fondamentali, ossia prodotto e mercato. Seguono tutte quelle conoscenze pratiche che vanno dagli adempimenti societari al saper interpretare un bilancio, fino a tutti i trucchi che si imparano sul campo sbagliando e pagando le sanzioni. E’ molto difficile che questo know how possa essere appreso in un’università: la sua trasmissione va affidata alla comunità di pratica.
Infine, ci sono gli skill che permettono alle persone di relazionarsi con i colleghi e gli stakeholder all’interno di un’organizzazione o di una comunità: si tratta essenzialmente di cose che si apprendono sul campo, tenendo conto che la struttura organizzativa di una startup è per forza di cose assai diversa da quella di un’azienda consolidata.
Dove vengono formati gli ingegneri in Italia? Un po’ ovunque ovviamente perché negli ultimi anni le università sono nate come funghi. Però ci sono senza dubbio alcune città che hanno maggiori chance di altre, perché gli atenei sono migliori e perché sfornano un gran numero di laureati ogni anno. Su questo punto ognuno candiderà la propria città: vedremo chi sarà in grado di andare oltre le candidature passando ai fatti.

Comunità di pratica
A scuola ci hanno insegnato che durante il medioevo i mestieri si imparavano e si facevano crescere attraverso le corporazioni e l’apprendistato. Quei modelli sono stati studiati e attualizzati dallo studioso Etienne Wenger che ha mostrato come tutt’ora le comunità di pratica svolgano un ruolo fondamentale nella trasmissione delle conoscenza che non si presta a essere codificata e istituzionalizzata nei corsi universitari.
Gli acceleratori americani come Y-Combinator, TechStars, 500Startups sono l’equivalente contemporaneo delle corporazioni medievali: promuovono il learn by doing mettendo a disposizione di giovani aspiranti imprenditori il know how e l’esperienza di un nutritissimo gruppo di mentori, che vanno da imprenditori di successo, a manager di grandi aziende a esperti di dominio. La loro partecipazione avviene a titolo gratuito, ma non si tratta di pura e semplice filantropia (give-back). Ci sono diversi motivi che rendono questa pratica molto vantaggiosa. In termini generali c’è la consapevolezza che ogni élite ha bisogno di un meccanismo di ricambio generazionale per garantirsi la sopravvivenza e deve cooptare sistematicamente un certo numero di nuovi membri particolarmente meritevoli espellendo dal sistema quelli che non producono più valore. In un’ottica di più breve periodo, gli acceleratori di startup rappresentano un grande parco di ricerca e sviluppo in crowdsourcing per la grandi aziende. Centinaia di imprenditori che si sforzano di portare sul mercato nuovi prodotti e di farli scalare velocemente per dimostrare che funzionano sono un fenomenale motore di innovazione per una corporation: non è un caso che, nel 2011, Google abbiamo acquisito 57 startup investendo 1,5 miliardi di dollari.
In altri termini le comunità di pratica sono lo strumento attraverso il quale – con un vero e proprio patto generazionale – vengono trasmesse conoscenze ed esperienze ai nuovi imprenditori e, allo stesso tempo, sono un il luogo dove avviene la scoperta dei talenti e dove si fa innovazione di prodotto.

Luoghi simbolici
Gli esempi citati nel paragrafo precedente permettono di introdurre il terzo pilastro dell’ecosistema: la necessità di luoghi simbolici. La stessa Silicon Valley è un luogo simbolico tanto forte che, parlando di startup, è difficile non farvi riferimento. Ecco quindi che l’area in cui si concentrano le startup a Manhattan è stata soprannominata Silicon Alley, mentre nella tech city londinese è nato il Silicon Roundabout Social Club. In alternativa, viene usata la parola Valley: in Italia abbiamo la Tiburtina Valley a Roma, l’Etna Valley a Catania. Wired qualche tempo fa ha inventato la Italian Valley e chi più ne ha più ne metta.
Abbiamo bisogno di luoghi simbolo. Lo ha capito bene Riccardo Donandon che sta costruendo una vera e proprio cittadella dell’innovazione digitale nelle campagne del trevigiano (per inciso, scherzosamente l’ha soprannominata Sile Valley, dal nome di un torrentello che passa accanto ad H-Farm). L’esperienza di Riccardo e soci è estremamente significativa e probabilmente è l’unica paragonabile alle esperienze di eccellenza degli Stati Uniti. La cosa che la rende particolarmente interessante è che si tratta dell’impegno di privati, per lo più imprenditori di seconda generazione, che stanno investendo i propri soldi, invece di andarsi a lamentare dalla politica.

H-Farm è uno: non basta! A Roma, Enlabs sembra andare nella direzione giusta anche se è ancora molto lontana dai risultati raggiunti in pochi anni dagli operosi imprenditori del nord est. Attorno all’acceleratore di Luigi Capello, inoltre, si stanno aggregando un po’ di persone che aspirano a fare della Capitale il prossimo digital hub italiano.

Apertura e diversità
Nella Silicon Valley, alcune tra le più grandi aziende come Google, Yahoo! e Intel sono state co-fondate da immigrati e, oggi, negli Stati Uniti c’è un rilevante dibattito sull’opportunità di rendere più semplice la concessione di visti per gli imprenditori. Il rischio, infatti, è che i fondatori stranieri a un certo punto siano forzati a lasciare la California portando con sé capitali e posti di lavoro.
Con buona pace dei leghisti, gli immigrati sono fondamentali per promuovere l’innovazione e creare nuovi posti di lavoro, come mostra uno studio della National Foundation for American Policy:

  • il 46% delle aziende americane finanziate dai principali fondi di venture capital hanno almeno un immigrato tra i founder;
  • il 74% ha almeno un immigrato nel top-management (Ceo, Cto e Vp);
  • ogni azienda fondata da un immigrato ha creato in media almeno 150 posti di lavoro (e le aziende coinvolte nella ricerca sono ancora nella fase di accelerazione);
  • i Paesi di origine che ricorrono di più sono l’India, seguita da Israele, Canada, Iran e Nuova Zelanda.

Inutile dire che si tratta di immigrati di grande qualità, con competenze specialistiche e una grande voglia di migliorare la propria condizione sociale e di avere successo. Questo tipo di immigrazione andrebbe favorita anche in Italia a prescindere dal Paese di origine.
Accogliere gli immigrati di qualità contribuisce a esporre le persone alla diversità, alla constatazione che ci possono essere diversi modi di fare le cose, che si può osare cambiare e proporre delle strade alternative. E’ una predisposizione che dovrebbe essere favorita perché – come dice Luca De Biase – l’innovazione è sempre un atto di ribellione.

Capitali
Infine i soldi. Li ho messi per ultimi, perché i venture capital sono un fertilizzante, accelerano il processo di crescita delle startup, ma non sono la scintilla che accende il fuoco. Piuttosto, i soldi si spostano dove c’è la possibilità di crescere, nel bene e nel male. E’ stato così anche nella Silicon Valley: gli investimenti privati sono arrivati dopo quelli dei militari interessati a far crescere la tecnologia dei radar e dei satelliti necessaria a combattere la guerra fredda.
Gran parte delle sviluppo tecnologico del dopo guerra è stato prodotto dagli investimenti fatti dallo Stato nel sistema della ricerca con l’obiettivo di creare nuove armi o nuovi strumenti di difesa. Le grandi famiglie imprenditoriali hanno iniziato a investire in un settore che aveva un mercato captive e ne hanno accelerato la proliferazione permettendo che l’elettronica si diffondesse anche nel settore privato.
I venture capital non creano ecosistemi, ma ci entrano se e quando pensano che ci sia possibilità di fare soldi. E’ logico che sia così. In questo senso, appare abbastanza inutile invocare l’assenza di un grosso volume di capitali di rischio come causa del nanismo delle startup digitali, perché anche qualora questo volume ci fosse, sarebbe assai difficile impiegarlo. Allo stesso tempo, non dobbiamo dimenticare che l’Italia fa parte dell’Unione Europea e che nei 25 Stati che la compongono esiste libera circolazione di persone, servizi, merci e capitali. Quello che non viene messo a disposizione dagli italiani, può essere cercato all’estero: è il bello della concorrenza 😉

P.s. Mi ero riproposto di affrontare questo tema in due post ma non ci sono riuscito. Quindi inizio subito a scrivere il terzo, con l’obiettivo di elencare le cose da fare nel contesto dell’Italia.