La scorsa settimana, io e Giuliano abbiamo partecipato alla Seedcamp Week di Berlino: il nostro obiettivo era vincere la selezione e essere arruolati nel programma di accelerazione che parte oggi (20 maggio) a Londra. Le cose non sono andate come ci aspettavamo.
Cominciamo dall’inizio. Arriviamo a Berlino sabato mattina, prendiamo possesso dell’appartamento affittato tramite AirBnB, colleghiamo i computer al Wi-Fi e cominciamo a rivedere tutti i materiali, dal pitch alla captable. Facciamo solo poche modifiche al pitch, decidendo di mantenere essenzialmente lo stesso che avevamo usato al mini-seedcamp di Kiev.
Continuiamo a lavorare fino al giorno dopo. Domenica pomeriggio ci sono le prove: noi siamo gli ultimi e sembra che il pitch funzioni abbastanza bene. Ci suggeriscono di chiarire bene che noi siamo una piattaforma per costruire applicazioni web e non siti web. Quindi, la sera aggiungiamo una slide per sottolineare questo punto.
Lunedì abbiamo appuntamento alle 13 presso la sede di Bertelsmann: tutto molto elegante e formale. Facciamo il nostro pitch di 3 minuti e passiamo i successivi 7 a rispondere a qualche domanda. In questi contesti non riesci mai a capire se hai attivato i trigger giusti nella testa dei tuoi interlocutori o meno. Non sappiamo bene chi abbiamo di fronte: ci hanno solamente detto che si tratta del comitato di investimento di Seedcamp. Quindi non abbiamo idea di quali siano le competenze dei nostri interlocutori. Gli investitori non sono tutti uguali, hanno la loro storia professionale, una specializzazione e sensibilità diverse.
Salutiamo e andiamo a pranzo. Dopo un’ora riceviamo un messaggio che ci dice che dobbiamo tornare per fare un altro pitch. Trangugiamo quello che stavamo mangiando, prendiamo un taxi e torniamo di corsa.
Il secondo pitch si ripete simile al primo con una seconda platea: anche in questo caso – salvo un paio di casi – non sappiamo bene chi abbiamo di fronte. Rispondiamo diligentemente: sono mesi che stiamo lavorando a questo progetto, siamo preparati, abbiamo scritto lunghi elenchi di domande e risposte.
Passiamo in sala di attesa, dove – alla spicciolata – arrivano altre cinque startup. Capiamo che siamo in una short list e che siamo oggetto di un ulteriore approfondimento. Uno dei partner di Seedcamp ci dice che non tutti sono convinti e che siamo oggetto di discussione. Ci chiede di preparare al volo un piccola documentazione e di parlare con il loro entrepreneur in residence. Discutiamo a lungo con Turi Munthe, parliamo al telefono con alcune persone. Quindi veniamo chiamati per un terzo pitch. Questa volta si tratta di un gruppo di imprenditori che stanno completando il programma. Le domande sono più o meno le stesse.
Alle sette di sera, riparliamo con il partner di Seedcamp che ci dice che non c’è ancora una decisione e che dobbiamo aspettare il giorno successivo. Comincia a emergere il motivo della perplessità . E’ il mercato a cui abbiamo deciso di rivolgerci: qualcuno pensa che non sia scalabile.
Martedì, la giornata inizia con i pitch di tutte le startup davanti a una platea di una sessantina di mentor. Proseguiamo con una master class di Andy Budd (Clearleft), pranziamo e ci prepariamo al pomeriggio con i mentor. Anche in questo caso abbiamo studiamo scrupolosamente, verificando in anticipo tutti i profili e individuando le persone con cui volevamo parlare. In poche ore interloquiamo con una quindicina di persone, con background molto diversi tra di loro. La qualità è molto eterogenea, ma alcuni feedback sono estremamente interessanti. Prendiamo diligentemente nota di tutte le osservazioni.
Alla fine ci comunicano che hanno deciso di non prenderci subito ma di darci una seconda possibilità . Siamo un po’ delusi, ma la sensazione principale è la curiosità . Vogliamo comporre bene il puzzle delle osservazioni che abbiamo raccolto per capire quali sono i campanelli di allarme che si sono accesi nelle teste dei nostri interlocutori. E’ evidente che c’è un problema: è strutturale (il nostro progetto fa schifo) o è una questione di comunicazione (raccontiamo le cose sbagliate)?
La sera chiacchieriamo a lungo con il partner di Seedcamp che ci fa una sintesi di tutte le opinioni che ha raccolto su di noi. Finalmente capiamo qual è il problema e un po’ ci viene da sorridere: «you don’t think big enough».
Stamplay è il frutto di un percorso di lavoro che dura da diversi mesi e durante i quale abbiamo progressivamente allargato la visione sul prodotto. Ma il processo non è completo, perché oggi abbiamo in mano un prodotto che può fare molte cose e che ha delle potenzialità enormi, ma continuiamo a pensare che possa essere utilizzato solo da una categoria di persone per fare una cosa. È come se avessimo inventato l’automobile, ma avessimo deciso di venderla solo ai genitori e solo per portare i bambini a scuola.
L’ultimo giorno, le quattro startup selezionate presentano i propri progetti a una platea di investitori europei. La qualità dei pitch è migliorata tantissimo da sabato: sono tutti più sicuri, hanno cambiato le slide e le hanno fatte più belle e precise. C’è anche un gruppo di startup che sta terminando il programma (a me piace molto CrowdProcess) e gli interventi del team di Seedcamp. La sera termina con un aperitivo sul roof dell’edificio con accompagnamento musicale a cura di Lino Modica (niente affatto male).
Le cose non sono andate come ci aspettavamo. Per molti versi sono andate assai meglio 🙂
One Response
Grazie per la condivisione dello spunto Nicola è incredibile come i confronti con gli investitori siano sempre i momenti di maggior riassetto delle startup, senti ma poi le slide definitive le avete ripubblicate?